Quando l’arte anticipa la scienza

A cura di
Daniela Scala

sdaniela2000@yahoo.com

Cari colleghi e colleghe in questo numero Gennaro Rispoli, direttore della UOSC Chirurgia Generale dell’Ospedale Ascalesi di Napoli, e direttore del Museo delle Arti Sanitarie di Napoli, riporta un distillato del suo contributo al ponderoso volume, Caravaggio tra arte e scienza (Napoli: Paparo Edizioni, 2012), a cura di Vincenzo Pacelli e Gianluca Forgione. I due studiosi hanno convocato una schiera di professionisti e studiosi che, ciascuno in modo diverso, hanno contribuito a dare una maggiore comprensione dell’opera del pittore. Che cosa ci fanno medici, musicologi, esperti di restauro, storici della filosofia e dell’arte davanti a un quadro del Caravaggio? La risposta è da cercare nel sottotitolo tra arte e scienza. La novità sta nel fare ricorso anche a competenze che provengono dal mondo delle scienze biomediche. Medici clinici, anatomopatologi, medici legali sono stati convocati per analizzare i quadri di Caravaggio, cercando di rispondere alle questioni che si pongono di solito quando hanno davanti agli occhi persone malate o cadaveri: di quale patologia è affetto il personaggio ritratto (il Bacchino malato, per esempio)? Quanto è accurato, dal punto di vista fisiologico, lo sgozzamento del Battista? Tra arte e scienza il dialogo è possibile e necessario ancora. La medicina un tempo era definita un’arte. Ma come possiamo oggi declinare questa concezione con la richiesta di una medicina sempre più scientifica, sempre più scienza? Che cosa può aggiungere l’arte alla medicina, dal momento che la scienza sembra che non possa più lasciare spazio e tempo al comportamento creativo? La medicina è in realtà una scienza che viene applicata ad un contesto antropologico e non si può dimenticare che ogni uomo porta con se qualcosa che non può essere interamente coperto e soddisfatto solo dalla conoscenza scientifica.

Gennaro Rispoli

Direttore UOSC Chirurgia Generale, Ospedale Ascalesi – ASL Na Centro, Napoli; Direttore Museo delle Arti Sanitarie, Napoli

Può un artista descrivere un organo, un particolare anatomico, intuire la fisiologia o descrivere i segni della malattia prima di chi esercita l’arte di curare? Se la visione artistica è accurata e attenta, i dettagli della forma del corpo e le sfumature di colore possono fissare sulla tela dell’artista anatomia, fisiologia, patologia, anticipando i tempi della scienza. Tra arte e scienza c’è un legame così stretto per la capacità speciale di osservare: come già intuiva Leonardo, “la scienza è figliola dell’esperienza che mai non falla”.

L’osservazione da più prospettive del reale, lo sforzo di interpretare l’essenza delle cose e dare colore ai sentimenti muove l’artista.

L’osservazione, la ricerca della verifica e la ripetizione razionale dell’esperienza è alla base della scienza.

L’observatio et ratio è alla base della medicina dai tempi di Ippocrate e la metodologia clinica positivistica ha confermato nell’Ottocento il forte ruolo della medicina osservazionale.

Alexis Carrel, Premio Nobel per la medicina per le sue ricerche sulle suture vascolari, era solito dire che “molto ragionamento e poche osservazioni portano all’errore, mentre poco ragionamento e molte osservazioni scoprono il vero”.

Tuttavia, se L’EBM (Evidence Based Medicine) è il metodo scientifico basato su parametri statistici oggi più accreditati, non bisogna dimenticare che la maggior parte delle scoperte scientifiche sono dovute al caso e alla serendipity, nel corso di una ricerca condotta per altre finalità.

Ecco perché l’occhio intuitivo dell’artista può soccorrere l’occhio clinico. D’altro canto, la inner version (Mark W.M. Smith, Dublin) e la scomposizione del reale in segmenti o parti rappresentano il modo primordiale di acquisire l’immagine da parte del nostro cervello. Questa meccanica grafica di rappresentazione per triangoli o quadrati è parte essenziale di tante correnti pittoriche del Novecento.

Certamente, rappresentare il corpo è affare non solo della medicina per artisti o medicina pittorica insegnata nelle Accademie, ma anche un modo per entrare nelle meccaniche e nelle dinamiche funzionali degli esseri viventi e aiutare a comprenderne la vita. Che il corpo non sia l’automa meccanico della scienza settecentesca o un insieme di formule biochimiche, l’artista l’ha percepito da sempre, cercando nei tessuti e nel sangue e nell’anima i sentimenti e la conoscenza.

Caravaggio ci ha insegnato con i suoi giochi di luce e composizioni spaziali che la realtà non è del tutto svelata e presenta sempre dei lati da scoprire. Caravaggio, nella Decollazione del Battista, quadro che ho accettato volentieri di analizzare con l’occhio del chirurgo, cancellando dalla mia mente ogni riferimento alla tradizione storico-artistica, effettua una dissezione anatomica e fissa sulla tela l’esecuzione di un supplizio, i suoi tempi e la sua fisiopatologia.

La tela, straordinaria per la mole, è ridistribuita in tre parti: il carceriere che indica al boia lo sgozzamento e alla fantesca la raccolta del sangue e, forse, della testa; al centro, la torsione dei corpi del boia e della vittima, che ne intreccia le azioni e i destini; sulla destra, dietro le sbarre della prigione, due uomini, in uno dei quali si è voluta identificare la fisonomia del Caravaggio medesimo, osservano la scena.

La freddezza professionale del boia è indubitabile. Il gesto di possesso e controllo del corpo da colpire, l’uso della postura per colpire e controllare col peso il Battista sono efficaci anche interpretando il linguaggio del corpo. Il gesto dell’incidere sulla regione sterno-cleido-mastoidea sinistra si intuisce repentino dalla posizione dell’arma che tradisce un sapiente e consumato killer. Solo un esperto di armi bianche può apprezzare l’eleganza del rinfoderare alla cieca il coltellaccio insanguinato. In realtà la mano che impugna l’arma occupa il centro del quadro e cattura lo sguardo degli osservatori, fissando il gesto e il tempo dell’azione. L’arma dello sgozzamento parziale presenta un solo taglio con un grosso e tozzo manico per un’efficace presa. Non vi sono decorazioni o linee per lo scolo del sangue, è un’arma rozza da macellaio e non più la raffinata spada che il maestro spesso ci mostra nelle sue opere, come quella che inusata spunta accanto alla testa di Giovanni. Ma un’arma è tale soprattutto per l’intenzione di uccidere. Caravaggio, esperto di lame, sa usare le armi ed è lì a Malta per meritarsi il diritto di cingere una spada: è difficile immaginare che la scelta di rappresentarla nel quadro sia fortuita. Il coltello da macellaio è l’arma giusta per un rozzo boia malvestito in contrasto con l’elegante carceriere che gli è accanto.




Il coltello è stato appena usato, come mostrano le tracce di rosso sul suo estremo distale al manico e quindi viene riposto dopo una corta incisione sulle regioni laterali sinistre del collo del Battista. Dopo sarà forse usato per spiccare la testa dal collo in un’opera di sapiente e gravosa macelleria. Qualcuno ha detto che si tratta di una misericordia, coltello speciale a lama sottile e triangolare che veniva impiegato “misericordiosamente” per accelerare la morte di un suppliziando o in un ferito grave. Il coltello misericordia spesso coincide per tradizione con uno spezzacorazza ed è comunque un coltello stiliforme per attraversare senza attrito tegumenti e tessuti, colpendo nella profondità del torace e del mediastino organi essenziali alla vita quali il cuore, i polmoni, i grossi vasi, etc. Non è un gesto misericordioso quello eseguito dal boia su preciso comando del carceriere, visto che il Battista è ancora cosciente e tonico (si veda la postura del corpo e la posizione attiva delle mani), pur se lo sguardo velato e il colore grigiastro dell’incarnato tradiscono i segni di un incipiente shock ipovolemico. In realtà, la ferita intenzionale del boia ha procurato una calcolata recisione dei vasi carotidei che provoca una vivace emorragia espressa in un pozzetto di sangue in basso, nel quale Caravaggio imprime, per la prima volta, la sua firma su una tela.

Nella parte destra della composizione, si leggono bene architettura, grate e funi che fanno convergere l’occhio verso la scena del supplizio, con un rimando visivo tipico del Caravaggio, per destare, come altri particolari, meraviglia e innovazione. Tutta l’opera rappresenta un atto ben preciso, lo sgozzamento parziale, una ferita arteriosa carotidea, un’emorragia vivace e il gesto imperioso del carceriere che indica alla donna di far scivolare il bacile sotto il capo del Battista per raccogliere il sangue e dopo, forse, la testa, secondo la tradizione evangelica.

Il dipinto, da Bellori in poi, è stato sempre etichettato come Decollazione del Battista. A ben guardare, esso inequivocabilmente ritrae una fase precedente del supplizio.




La grande tela di Malta non è paragonabile alla Giuditta e Oloferne conservata a Palazzo Barberini, nella quale dalla gola parzialmente recisa di Oloferne gli schizzi sgorgano a fiotti di sangue rosso rutilante, a raggi divergenti dalla gola verso il torace.

In Giovanni, la ferita della regione sterno-cleido-mastoidea sinistra non appare beante, anche perché il collo è ripiegato sul torace, ma si tratta di un’emorragia da lesione carotidea che emerge ritmicamente seguendo l’itto arterioso con schizzi che cadono al suolo, dove si raccoglie una pozzetta di forma triangolare con prevalenza, nella parte centrale, di un rosso cupo che lascia immaginare sangue parzialmente rappreso. La forza della spinta arteriosa fa sì che il sangue fende l’aria con due schizzi che vanno rarefacendosi verso l’estremo prossimale che parte dalla ferita. È un’incredibile descrizione di ciò che avviene da un vaso, reciso parzialmente, mentre l’emorragia fuoriesce con il ritmo discontinuo della pulsazione arteriosa.

I due zampilli ritratti esprimono l’effetto del tempo, frazione di secondi che intervallano due battiti cardiaci fermati sulla tela. È la stessa scena che si presenta al chirurgo quando osserva una ferita tangenziale della carotide. Una ferita totale del vaso comporta un getto esterno non ortogonale con l’asse vasale. È strabiliante la descrizione dell’emorragia arteriosa ripresa in più tempi, dove l’azione del sangue accentua il movimento della scena. Caravaggio deve aver assistito a sgozzamenti, a ferite emorragiche da arma bianca e descrive senza cultura medica, ma semplicemente sulla base dell’esperienza diretta, una dinamica del flusso arterioso ignota ai suoi contemporanei, almeno fino a William Harvey, nel 1628, e al suo De Motu Cordis. L’artista quindi descrive sulla tela l’itto arterioso e il flushing della carotide recisa come se conoscesse a memoria l’effetto esterno di una ferita carotidea, la contrattilità vasale e le dinamiche dei fluidi ematici. Oppure, forse ha solo assistito alla morte da shock ipovolemico a causa di una ferita vascolare del collo. Ci conferma lo spirito di attento osservatore per le dinamiche fisiopatologiche, il resto lo fa la tradizione dei cavalieri e la mistica del sangue versato.

Si legge nel Levitico che il sangue è la sede dell’anima. Secondo Aristotele il sangue è il mezzo interno del corpo che trasmette conoscenza agli organi, anzi è il mezzo ideale della conoscenza e della connessione tra i vari organi e apparati del corpo.

Il titolo corretto del capolavoro maltese, in accordo a quanto sostenuto da Pacelli, non è dunque la Decollazione del Battista, come riportato dal Bellori fino ad oggi. Sulla scena non c’è la decollazione. Caravaggio nel quadro mostra solo il Battista morente per una ferita al collo con copiosa emorragia esterna arteriosa. Non si tratta nemmeno di uno scannamento, che comporta la morte per soffocamento da sangue aspirato nelle vie aeree, perché il sangue zampilla ovunque, come nella Giuditta di Palazzo Barberini.

Si tratta invece di uno sgozzamento per mezzo di una corta ferita da punta e taglio che recide i vasi carotidei. Nella Decollazione maltese la ferita è obliqua lungo l’asse vascolare giugulo-carotideo, coperto dal muscolo sterno-cleido-mastoideo, caro al tratto elegante degli artisti. La carotide comune si biforca in quel tratto nella carotide interna e in quella esterna, e insieme alla vena giugulare e al vago costituisce un fascio vascolo-nervoso che decorre quasi parallelo alla direzione obliqua del muscolo sterno-cleido-mastoideo.

È questo un muscolo possente, che dal terzo interno della clavicola e dal capo sternale si porta alla mastoide con un decorso obliquo. La lettura interpretativa proposta fa giustizia dell’ipotesi di Bellori e fa immaginare che il sangue che sgorga sarà raccolto nel bacile, come comanda il perentorio e contestuale gesto del carceriere. Forse dopo seguirà la decollazione. D’altro canto, la postura del martire e il bacile non sono idonei per la decollazione, che richiederebbe almeno un ceppo.

C’è un intimo e straordinario rapporto tra le testimonianze figurative e la scienza del tempo a esse contemporanea, che evidenzia la vena artistica del guaritore e il rapporto con l’artista che, più o meno coscientemente, rappresenta nelle sue opere la ricerca scientifica e le conoscenze su anatomia, fisiologia e clinica del suo tempo. Il processo di svelamento del “grande libro della natura” è spesso fortuito da parte dell’arte e quasi sempre finalistico e quindi non compreso e adeguatamente utilizzato e sfruttato!

Basti pensare a Leonardo da Vinci, che nei suoi schizzi anatomici, tratteggiati per la sua stessa memoria, riporta prima di ogni anatomista i diverticoli del colon, schematizza lo sfintere anale, descrive l’appendice vermiforme appena settanta anni prima di Berengario da Carpi. Leonardo mostra cistocele e rettocele nel ritrarre l’aditus ad vaginam. A volte egli denuncia le conoscenze scientifiche del suo tempo, potendosi leggere rimandi e debiti nei confronti dell’anatomia di Avicenna (ad esempio la rappresentazione delle vie spermatiche originate dal midollo spinale). Quando l’artista ritrae però con mente libera dalla tradizione ippocratica-galenica, allora egli diventa un autentico scienziato e propulsore di scoperte mediche, pur non sapendole comprendere!

Resta comunque sorprendente che da un’esperienza anatomica così modesta, appena ventotto autopsie, Leonardo abbia raggiunto una visione molto vicina al reale per tutti gli organi e strutture osteo-muscolari.

Molti anatomisti schizzarono e appuntarono le loro osservazioni anatomiche durante la dissezione, ma più spesso a ritrarre l’anatomia era un pittore. Johannes Stephan van Calcar, seguace di Tiziano, illustrò per Andrea Vesalio, e Michelangelo dipinse per Realdo Colombo, studioso della circolazione polmonare. Anche nell’Ottocento i pittori frequentavano gli obitori; lo sguardo sul male e sulla morte ha certamente ispirato Jean-Louis Théodore Géricault il quale, entrato in possesso della testa di un ladro giustiziato, se la tenne per quindici giorni sotto il letto per registrarne la decomposizione e il mutamento di colore.

È difficile riconoscere quanto la scoperta dell’artista possa essere considerata scienza, se si eccettua uno sparuto drappello di curiosi e studiosi del rapporto tra arte e discipline scientifiche. Forse la mancanza di un programma e di un progetto scientifico limitano l’importanza dei dettagli rilevati, mai seguiti da un oggettivo riscontro pratico nell’esercizio della medicina, ma meritevole solo di un postumo riconoscimento alla curiosità innata dell’artista.