Sindaci, Sindacare, Sindacati

Laura Fabrizio
laurafabrizio01@gmail.com

“La scommessa è che le singole parole, quasi sussurrate, conservino il fascino
della narrazione, suscitando nel lettore il desiderio di leggere e ricercare, per propria
autonoma scelta, anche quello che è taciuto”.



Che la SIFO degli ultimi anni sia percepita sempre di più come la “casa comune” dei farmacisti che, a vario titolo e ai vari livelli, operano nelle strutture ospedaliere e territoriali delle aziende sanitarie italiane pubbliche e private, non può che fare piacere e lo dimostra anche il fatto che il suo Presidente riceva una rilevante e costante quantità di lettere con cui soci e non soci suggeriscono, chiedono, plaudono e si lamentano su argomenti che non sempre sono di pertinenza e competenza di una Società Scientifica qual è la SIFO.
Decine di queste lettere e telefonate, soprattutto da parte di giovani colleghe e colleghi, vertono su argomenti di esclusiva natura sindacale che non possono e non debbono essere affrontati e risolti dal Presidente o dal Consiglio Direttivo di un’Associazione che per statuto e per mandato ricevuto deve rivolgere tutta l’attenzione e l’impegno di cui è capace verso gli aspetti scientifici e culturali della nostra professione nei più ampi contesti socio-sanitari regionali, nazionali ed internazionali. Per il resto, ci sono - o ci dovrebbero essere - i sindacati, costituiti appositamente per tutelare gli interessi economici, professionali ed occupazionali della categoria.
Giova precisare - per i “newcomers” - che il Collegio dei Sindaci, eletto dai soci SIFO, è un organo che esercita soltanto il controllo sull’attività amministrativa all’interno della Società, con particolare riguardo alla tenuta della contabilità sociale e della sua rispondenza con il bilancio.
È anche vero che con il termine “Syndikos” - composto da “Syn” (=insieme) e “dìke” (=giustizia) - i Greci chiamarono alcuni ufficiali pubblici incaricati, dopo la espulsione dei Trenta Tiranni, di rivedere i conti, giudicare sui beni confiscati ai cittadini e sostenere in qualità di avvocati ed oratori una legge che venisse impugnata. Di qui i vari e più recenti significati della parola “Sindaco”, che vale Patrocinatore di una causa, di un affare oppure colui che tratta i negozi della Città o del Comune, ossia il capo del Municipio, il difensore di una Città.
Sindacare, poi, come “rivedere altrui il conto sottilmente e per la minuta”; in senso figurativo: biasimare, censurare, ispezionare, sorvegliare; onde “chiamare a sindacato” per chiamare a rendere conto; “Essere a sindacato” per rendere altrui ragione delle proprie operazioni.
Fino a qualche anno fa, il Sindacato era percepito come associazione di categoria costituita per la tutela degli interessi collettivi, organizzata in strutture funzionali ed in organismi rappresentativi per controllare l’attività di Enti, Amministrazioni pubbliche e private o singoli Funzionari. Ma tra inganni, corruzione e sfiducia la storia è stata implacabilmente impietosa con tutti i Sindacati: ai massimi trionfi, in termini di forza contrattuale, negli anni del Secondo dopoguerra per poi precipitare nella negazione pratica di tutte le conquiste, culminata in una progressiva umiliante impotenza se non in una degradante e colpevole latitanza.
La vasta offensiva dei poteri forti li ha totalmente neutralizzati e svuotati al punto che, salvo rare eccezioni, attualmente appaiono ridotti ad una esistenza residuale: non mordono più.
L’indebolimento dei Sindacati di categoria sta colpendo con particolare accanimento i giovani per i quali viene offerta, a sprazzi, una difensiva difficile ed inconcludente perché incapace di elaborare una strategia all’altezza di sfide che non si era e non si è preparati ad affrontare. Le generiche lamentazioni dal mondo sindacale di fronte al perdurare della crisi economica e finanziaria sono del tutto insufficienti per difendere perfino i resti di quel welfare la cui conquista era stata la sua gloria.
Il Sindacato, così com’è oggi, non riesce più ad incidere, se non debolmente, sui meccanismi di potere. Come qualcuno diceva: “Gli ideali si misurano dalla capacità di metterli in pratica”. Vedremo se il Sindacato saprà rifondarsi, individuare leader idonei, ridarsi una cultura, un programma, una nuova organizzazione, dei progetti concreti. Per ora, purtroppo, non se ne intravedono i segni ed è cambiato profondamente il contesto storico dell’Italia post bellica quando un gigante del sindacalismo mondiale, il pugliese Giuseppe Di Vittorio, la mattina del 3 novembre 1957, poche ore prima di morire, teneva questo discorso ai dirigenti e agli attivisti sindacali di Lecco:
“Lo so, cari compagni, che la vita del militante sindacale di base è una vita di sacrifici. Conosco le amarezze, le delusioni, il tempo talvolta che richiede l’attività sindacale, con risultati non del tutto soddisfacenti. Conosco bene tutto questo, perché anch’io sono stato attivista sindacale: voi sapete bene che io non provengo dall’alto, provengo dal basso, ho cominciato a fare il socio del mio sindacato di categoria, poi il membro del Consiglio del sindacato, poi il Segretario del sindacato, e così via: quindi, tutto quello che voi fate, che voi soffrite, di cui qualche volta anche avete soddisfazione, io l’ho fatto. Gli attivisti del nostro sindacato, però, possono avere la profonda soddisfazione di servire una causa veramente alta. […]
Invito a discutere su questo: è giusto che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori stessi e delle loro famiglie, delle loro creature? È giusto questo? Di questo dobbiamo parlare, perché questo è il compito del sindacato. […]
Avete visto che cosa è avvenuto: mano a mano che il capitalismo riusciva ad infliggere dei colpi al sindacato di classe e alla CGIL, e quindi a indebolire la classe operaia, non solo si è verificata una differenza di trattamento dei lavoratori, ma come conseguenza di questa differenza di trattamento, si è aperto un processo in Italia che tuttora continua. […] Si sono aperte le forbici, si è prodotto uno squilibrio sociale profondo nella società italiana. Supponete, per esempio, che il rapporto fra salari e profitti fosse 100 per i salari e 100 per i profitti nel 1948. Come è andato sviluppandosi il processo? I profitti da 100 sono andati a 110, i salari sono rimasti a 100. Poi i profitti sono andati a 150, i salari sono andati a 105; i profitti sono andati a 200, i salari sono andati a 107; i profitti sono andati a 300, i salari rimangono a 107-8-9. Quindi si sono aperte due curve: i profitti si alzano sempre più e i salari stentano a salire, rimangono sempre in basso. Le conseguenze, allora, di questi colpi ricevuti dalla CGIL ad opera del grande capitalismo, delle scissioni, delle divisioni dei lavoratori quali sono state? Ecco: le due curve, la curva dei profitti che aumenta sempre di più, e la curva dei salari che rimane sempre in basso. […] La nostra causa è veramente giusta, serve gli interessi di tutti, gli interessi dell’intera società, l’interesse dei nostri figliuoli. Quando la causa è così alta, merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici. So che una campagna come quella per il tesseramento sindacale richiede dei sacrifici, so anche che dà, certe volte, delusioni amare. Ci sono ancora lavoratori che non hanno compreso, ma non bisogna scoraggiarsi. Pensate sempre che la nostra causa è la causa del progresso generale, della civiltà della giustizia fra gli uomini.
Lavorate sodo, dunque, e soprattutto lottate insieme, rimanete uniti. Il sindacato vuol dire unione, compattezza.
Uniamoci con tutti gli altri lavoratori: in ciò sta la nostra forza, questo è il nostro credo.
Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra CGIL, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire.
Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere. Buon lavoro, compagni”.
A noi, come farmacisti italiani del XXI secolo, non ci resta che sperare nei corsi e ricorsi della Storia confidando, per ora, nella grande generosità della terra di Puglia.