Scienza e arte; genio e follia: genetica, caso, o leggenda?

Daniela Scala

AORN A Caldarelli, Napoli
sdaniela2000@yahoo.com

“Oh Quanto il genio e la follia si toccano da vicino! Coloro che il cielo ha contrassegnato, nel bene e nel male, sono tutti soggetti, in misura differente, a entrambi i sintomi. Li manifestano più o meno frequentemente, con maggiore o minore virulenza. Alle volte li si rinchiude, e li si incatena; altre volte si erigono loro delle statue”

(D. Diderot)

La storia dell’arte è piena di artisti le cui opere altro non sono che la loro personale, audace, originale e talvolta angosciante visione della vita. È stato spesso detto che nell’arte non si può prescindere dalla personalità di chi crea un’opera e che il confine tra genio e follia è davvero molto labile. Ed è stato anche detto che è possibile rifugiarsi nell’arte, come in un mondo interamente privato ed intimo, dove potersi esprimere liberamente, al di là di qualsiasi giudizio.

“Non esiste genio senza una vena di follia”. Se ne era accorto Seneca. Anche per Aristotele “Non esiste grande genio senza una dose di follia”. E aggiungeva che “gli uomini eccezionali in filosofia, politica, poesia o arte” hanno un eccesso di bile nera che li rende malinconici. Salvador Dalì però non era d’accordo. “L’unica differenza - diceva con gli occhi allucinati e i baffi come due aghi verso il cielo - fra me e un matto è che io non sono matto”. 

La domanda nasce spontanea: perché molti tra gli artisti più celebri che hanno fatto la storia della musica, della scrittura, della pittura, del cinema e del teatro, lasciando un segno inconfutabile della loro grandezza nel mondo, hanno avuto una vita dissoluta, vizi incontenibili che li hanno inesorabilmente portati alla morte o al suicidio?

Il 28 marzo 1941 Virginia Woolf, afflitta da tempo da depressione e allucinazioni, si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse.

Il 29 luglio 1890 Vincent van Gogh, da poco uscito dal manicomio, andò in campagna a dipingere e si sparò un colpo al petto.

Il 24 gennaio 1920 Amedeo Modigliani morì a causa dell’abuso di alcool e droghe. Aveva 35 anni. Il giorno dopo la moglie, giovane pittrice in attesa del secondo figlio, si suicidò lanciandosi dalla finestra.

Genio e follia: facce della stessa medaglia? Si tratta di un caso, di leggende o di genetica?




Una risposta a questa domanda che ha più di duemila anni sulle spalle, viene dallo studio di Szabolcks Kéri della Semmelweis University di Budapest, pubblicato su Psychological Science nel 2009, che ha individuato in una particolare variante genetica della Neuregulina-1, la proteina cellulare responsabile del grado di connessione tra neuroni, con un ruolo importante nei processi cognitivi, un possibile nesso tra genio creativo e disturbi mentali. Una mutazione di questa proteina è associata sia ad un’elevata incidenza di malattie mentali come la schizofrenia e il disturbo bipolare, che a un maggior estro creativo in persone con elevato rendimento intellettuale e accademico.

Non è ancora noto il tipo di collegamento tra disturbi mentali e creatività e le cause di questa mutazione. Secondo Kéri un possibile legame può essere la ridotta inibizione cognitiva, che correla con una tipologia schizoide e una maggiore creatività nelle persone con grande intelligenza. La mutazione della Neuregulina-1 influisce sul funzionamento della corteccia prefrontale che è la sede del controllo cognitivo e funziona come filtro adibito ad impedire ai pensieri per così dire “irrilevanti” di interferire con i pensieri più razionali. È possibile che la Neuregulina-1, inibendo la funzione di filtraggio della corteccia prefrontale rispetto ai ricordi e alle percezioni, in qualche modo dia maggiore spazio alle abilità creative di una persona, attraverso una sorta di minore controllo della mente.

È stato dimostrato che la inibizione/riduzione della funzione prefrontale può portare a picchi creativi in persone con alto quoziente intellettivo, anche se tali persone possono trovarsi in una fase pre sintomatica di gravi malattie neurodegenerative. Da non escludere l’esistenza di altri fattori importanti che determinano se la mutazione genetica porti ad avere una maggiore creatività in alcuni casi e alla malattia in altri.

Vincent van Gogh: un genio o un folle?

Vincent van Gogh (1853-1890) è considerato oggi “il pittore malato” per eccellenza. La natura della sua malattia, che si manifestò prima dei trent’anni, è stata oggetto di numerose ricostruzioni e interpretazioni diagnostiche, fondate soprattutto sulle numerose lettere che van Gogh stesso scrisse al fratello Theo e alla sorella Wilhelmine. Tra varie altre diagnosi, sono state proposte quelle di epilessia, schizofrenia, intossicazione da assenzio, porfiria e sindrome di Menière. Nel momento in cui le sue crisi, caratterizzate soprattutto da allucinazioni e attacchi di tipo epilettico, si manifestavano, l’artista “cadeva” in uno stato di profonda depressione, ansietà e confusione mentale, tanto da renderlo totalmente incapace di lavorare. I momenti di febbrile creatività si alternavano ad una apatia prossima alla paralisi. Sbalzi d’umore imprevedibili lo facevano passare dalla disforia all’euforia con delle “crisi d’angoscia indescrivibili”. Estratti delle sue lettere chiariscono perfettamente gli stati mentali che egli sperimentava: “…non posso descrivere esattamente come sia quello che ho, sono delle angosce terribili talvolta senza causa apparente oppure un senso di vuoto e di stanchezza nella testa…” “… io ho a volte delle malinconie, dei rimorsi strazianti…” Scriveva a sua sorella Wilhelmine. “… ci sono momenti in cui sono alterato dall’entusiasmo o la follia o la profezia come un oracolo greco sul suo treppiede (…) io ho allora una grande prontezza con le parole…”. Dopo circa un secolo di dibattito tra molti eminenti specialisti e varie scuole di pensiero, l’ipotesi più accreditata è che l’artista soffrisse di una forma di disturbo bipolare (in passato spesso indicato come “sindrome maniaco-depressiva”), probabilmente complicato da attacchi epilettici (questi ultimi di natura neurologica, ma poco distinguibili dalla malattia psichiatrica per i medici francesi del XIX secolo) e, negli ultimi anni di vita, da episodi psicotici.

Negli ultimi mesi passati a Parigi, van Gogh era molto depresso. Scrisse all’amico e pittore Gauguin: “….quando lasciai Parigi [ero] veramente a pezzi, parecchio malato e quasi alcolizzato”. L’ambizioso autoritratto in cui Vincent si ritrasse mentre dipingeva, rispecchia quest’umore tetro. La tela è datata 1888 ed è una delle ultime dipinte dall’artista prima della sua partenza per Arles. La descrizione del quadro fatta a sua sorella Wilhelmine conferma la forte depressione di cui soffriva in quel periodo: “…Un viso rosa-grigio con gli occhi verdi, i capelli color cenere, rughe sulla fronte e intorno alla bocca rigida e legnosa; la barba rossissima incolta e triste, ma le labbra sono piene; un camiciotto di lino blu pesante e una tavolozza con giallo limone, vermiglio, verde veronese, blu cobalto. Insomma sulla tavolozza tutti colori interi tranne l’arancione della barba. Lo sfondo è una parte grigio-bianca. Dirai che assomiglia un po’ per esempio alla faccia della morte, nel libro [Frederik] van Eeden o qualcosa del genere; va bene, ma in ogni caso una figura così (e non è poi tanto facile dipingere se stessi) non è forse una cosa ben diversa da una fotografia? E vedi questo a parer mio è il vantaggio che ha l’impressionismo su tutto il resto: non è banale e si cerca una rassomiglianza più profonda di quella del fotografo”.

Nelle primavera del 1888, Vincent assetato di luce, parte per Arles, in Provenza, luogo in cui la sua pittura esploderà: affitta un piccolo appartamento in Place Lamartine (la celebre «casa gialla»), dove studia e dipinge.




Ciò che colpisce immediatamente nell’opera è il prevalere di due tonalità: il giallo degli edifici e della strada, l’azzurro profondo del cielo. Van Gogh utilizza gradazioni intense e brillanti per riprodurre sulla tela la luminosità del paesaggio mediterraneo, che lo aveva affascinato appena giunto nel Sud, il giallo oro del sole, l’azzurro brillante del cielo. Ma nella intensità dei colori non c’è solo un intento naturalistico, il desiderio di riprodurre fedelmente le atmosfere limpide del Mediterraneo. In questo quadro van Gogh utilizza il colore in modo diverso da come lo avevano usato gli impressionisti: non più come strumento per trascrivere sulla tela “un’impressione” e riprodurre l’oggettività di una veduta; ma il tramite con il quale egli esprime sentimenti ed emozioni. Si è tentato di mettere in relazione la malattia di van Gogh con la sua passione per il colore giallo, che predomina nelle tele del periodo francese. C’è chi sostiene che la predilezione di Vincent per il giallo sia probabilmente dovuta, in quegli anni, all’abuso che faceva di assenzio, una bevanda alcolica decisamente tossica, ma assai in voga nella Francia di quel periodo. Questo liquore dal colore verde intenso, che diviene giallo se allungato con acqua, si ricava dalla pianta Artemisia absinthium e contiene alcuni olii essenziali molto tossici, dagli effetti dannosi sul sistema nervoso, come il tujone in grado di provocare allucinazioni visive, attacchi epilettici e la xantopia, ovvero la “visione gialla” degli oggetti, in particolare di quelli bianchi o chiari. Più probabilmente l’artista ha stravolto il concetto impressionista di luce e colore, trasformandolo nello strumento per esprimere la propria personale visione della realtà. Van Gogh stesso ammette in una lettera al fratello Theo: “Io mi servo dei colori arbitrariamente per esprimermi in maniera più forte”. La casa gialla è una veduta reale di Arles, van Gogh non inventa niente, ma accentuando l’intensità dei colori e scegliendo come registro cromatico il contrasto giallo-blu, dà della realtà concreta una lettura emotiva e personale. Il giallo è per lui il colore della amicizia, il colore della luce e della speranza, solare e positivo. La casa gialla è la casa sulla quale aveva costruito tutti i suoi sogni, che avrebbe dovuto ospitare l’amico Gauguin e la loro comunità di pittori.

Altro esempio del ruolo emotivo ricoperto dal colore nella sua pittura è “Il Caffè di notte”, che rappresenta l´interno di un caffè che si trovava nella place Lamartine ad Arles. Al fratello Theo scrive: Ho cercato di esprimere con il rosso e il verde le terribili passioni umane. La sala è rosso sangue e giallo opaco, un biliardo verde in mezzo, quattro lampade giallo limone a irradiazione arancione e verde. C´è dappertutto una lotta e un´antitesi dei più diversi verdi e rossi, nei piccoli personaggi di furfanti dormienti, nella sala triste e vuota, e del violetto contro il blu”. In tal modo van Gogh rinuncia alla resa della luce degli impressionisti per tornare all´esaltazione dei sentimenti forti espressa dal colore.




È nella casa gialla che dove, dopo numerosi inviti, lo raggiunge, a ottobre del 1888, l’amico Paul Gauguin. In precario equilibrio, nervoso il primo, più saldo e meno eccitabile il secondo, i due artisti lavorano insieme, ma dopo le prime settimane di apparente serenità, i rapporti si incrinano drammaticamente. “…Vincent ed io non possiamo assolutamente vivere insieme per incompatibilità di carattere”, scrive Gauguin a Theo il 20 dicembre, “ed entrambi abbiamo bisogno di tranquillità. È un uomo di notevole intelligenza, lo rispetto, e mi dispiace dovermene andare; ma, ripeto, è necessario”. Il 23 dicembre, secondo quanto poi racconterà Gauguin, van Gogh tenta di colpirlo con un rasoio, mentre lui, spaventato, lascia la casa andando a dormire in albergo. Durante la notte Vincent, in preda al delirio, si taglia il lobo dell’orecchio sinistro (il destro negli autoritratti dipinti allo specchio), lo avvolge in un giornale che poi consegna a Rachel, una prostituta che frequentavano entrambi i pittori, e infine sviene nel suo letto, dove lo ritroveranno il mattino successivo (quando Gauguin sta già scappando a Parigi). Fu ricoverato in ospedale dove scivolò in un acuto stato psicotico di agitazione, delirio e allucinazioni per cui dovette essere isolato per tre giorni. Non conservò alcun ricordo della sua aggressione a Gauguin, né della sua automutilazione né dei primi giorni di ricovero in ospedale. Gli fu diagnosticata l’epilessia e somministrato del bromuro di potassio. Van Gogh recuperò in qualche giorno. Tre settimane dopo il suo ricovero, era in grado di dipingere il suo magnifico “Autoritratto con orecchio bendato e pipa” che lo mostra in un atteggiamento insolitamente sereno.




Questa è la versione ufficiale. Due studiosi tedeschi, Hans Kaufmann e Rita Wildegans, nel loro libro uscito in Germania con il titolo Van Goghs Ohr, Paul Gauguin und der Pakt des Schweigens (L’orecchio di Van Gogh, Paul Gauguin e il patto del silenzio) rileggono il dramma di Arles alla luce dei rapporti di polizia dell’epoca e dei vecchi ritagli di stampa. Gauguin e van Gogh quella notte litigarono violentemente: forse per divergenze artistiche, forse per contendersi nel bordello della città i favori di Rachel, o molto più probabilmente perché il francese voleva andarsene mentre il pittore olandese non accettava l’idea di essere abbandonato. Sta di fatto che per difendersi dall’aggressione di van Gogh, Gauguin, abile spadaccino, lo colpisce all’orecchio con un fendente della sua spada. Poi, prima di fuggire, inventa la versione dell’automutilazione, che Vincent sostiene anche davanti alla polizia e ai medici dell’ospedale. Per tacito assenso, non confesserà mai la verità, nella speranza di convincere l’amico a continuare la vita in comune.

E c’è anche una terza versione della mutilazione: Vincent van Gogh decise di mozzarsi un orecchio quando venne a sapere che suo fratello Theo stava per sposarsi. Martin Bailey, scrittore e giornalista britannico specializzato in storia dell’arte, nel suo libro Studio of the South Van Gogh in Provence pubblica questa versione. Secondo Bailey, Vincent apprese del matrimonio del fratello da una sua lettera. In quello stesso giorno, più tardi, ebbe una lite con Gauguin così violenta da indurre Gauguin ad andar via di casa minacciando un ritorno a Parigi. Secondo gli studi di Bailey non è stata la lite il motivo del gesto di Vincent. D’altra parte, che Vincent fosse preoccupato per la notizia del matrimonio di Theo era noto. Il pittore non aveva mai venduto neppure un quadro e dipendeva dal fratello finanziariamente, sicché la notizia del matrimonio di Theo doveva avergli suscitato non poca ansia. Tuttavia si era sempre ritenuto che Vincent avesse ricevuto la notizia delle imminenti nozze alcuni giorni dopo essersi mozzato l’orecchio.

Al tempo del ricovero e durante le settimane che seguirono, egli descrisse il suo stato mentale nelle lettere a Théo e a Wilhelmine: “…le intollerabili allucinazioni sono cessate, di fatto si sono ridotte ad un semplice incubo, come risultato dell’assunzione di bromuro di potassio, io credo…”… “mentre sono assolutamente tranquillo in un certo momento, posso facilmente ricadere in uno stato di sovreccitazione a causa di nuove folli emozioni” …”Sto bene in questi giorni, ad eccezione di un certo fondo di vaga tristezza difficile da definire…”.
Allo stesso tempo, osserva in modo quasi fortuito: “… sono svenuto tre volte senza una ragione plausibile e senza conservare il minimo ricordo di quello che soffrivo…”.
Dopo due nuovi episodi psicotici e l’umiliazione di un internamento imposto con richiesta ufficiale, van Gogh entra in manicomio a Saint-Remy nel maggio del 1889. Durante tutto l’anno che trascorre lì, ha quattro ricadute psicotiche, una in occasione dell’anniversario del suo ingresso, le altre tre a seguito delle uscite ad Arles, probabilmente annaffiate da assenzio.

Uno degli ultimi dipinti realizzati da van Gogh è Campo di grano con corvi” caratterizzato dalla pennellata vorticosa e tormentata. Le condizioni di salute del pittore peggiorarono. A proposito di questo quadro scrisse: “ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la tristezza, l´estrema solitudine”. In uno di questi campi intorno a Auvers, di lì a pochi giorni, si sparerà, e morirà due giorni dopo. 




Molti suoi capolavori possono apparire realmente “allucinati”, ma forse la creatività di van Gogh nasceva anche dalla “geniale” capacità di guardare la realtà da prospettive non ordinarie.  Vincent Van Gogh non finì mai di dipingere e rimase meravigliosamente creativo fino alla sua morte.

Si possono associare alla creatività di van Gogh e all’originalità dei suoi dipinti le caratteristiche dei “limiti” di una patologia?

A voi la risposta!

To be continued…