C’era una volta…

Daniela Scala

AORN A Caldarelli, Napoli
sdaniela2000@yahoo.com

Care colleghe, cari colleghi

Oggi si parla o meglio si ri-parla di Medicina Narrativa e dei suoi strumenti.

La malattia non è semplicemente un’alterazione dello stato fisiologico. Ammalarsi non significa solo soffrire fisicamente e vedere il proprio corpo trasformarsi fino a non riconoscerlo più (in alcuni casi), ma significa anche vedere completamente scombussolate le proprie abitudini, il proprio lavoro e le proprie priorità, le amicizie, gli affetti. In sintesi, la propria vita e la propria identità. Non a caso, la malattia grave e invalidante è stata definita come una “rottura biografica”, un vero e proprio punto di frattura nella trama esistenziale. La narrazione, in forma orale o scritta, può offrire uno strumento prezioso al malato per risignificare questa esperienza traumatica ed aiutarlo a ricostruire la nuova identità che ne scaturisce.

La grande espansione delle tecnologie diagnostiche, terapeutiche e chirurgiche, avvenuta dopo gli anni ’40 del secolo scorso, ha contribuito all’affermarsi di una “medicina tecnologica”, che ha reso il paziente sempre più passivo e il resoconto della sua esperienza di malattia sempre più irrilevante. L’importanza dell’esperienza del paziente e, dunque, della sua narrazione, nell’attività clinica è progressivamente diminuita, circoscrivendo la rilevanza della sua narrazione unicamente ai fini della raccolta delle informazioni necessarie a definire segni e sintomi oggettivi della malattia (da G. Giarelli, “Storie di cura. Medicina narrativa e medicina delle evidenze: l’integrazione possibile”, Franco Angeli, 2005)

La medicina contemporanea mette spesso al centro del processo di cura gli aspetti tecnico-scientifici e le conoscenze del professionista sanitario, concentrandosi sul “disease”, ovvero sulla malattia come concettualizzata dalla scienza medica non tenendo sufficientemente conto degli aspetti relativi a “illness”e “sickness”, ovvero del vissuto soggettivo del paziente e dei familiari e della percezione sociale della malattia.

Rita Charon, che alla Columbia University di New York ha fondato il corso di Medicina Narrativa e lo ha inserito nel percorso di Studi della Medical School, e che può essere considerata la madre del paradigma narrativo, fondamento delle Medical Humanities (Narrative Medicine: Honoring the Stories of Illness, Oxford University Press, 2006) dice:

La medicina narrativa fortifica la pratica clinica con la competenza narrativa per riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare ed essere sensibilizzati dalle storie della malattia: aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l’efficacia di cura attraverso lo sviluppo della capacità di attenzione, riflessioni, rappresentazione e affiliazione con i pazienti e i colleghi.

Significa sviluppare una disposizione di attento e costante ascolto del paziente, che permetta una sua conoscenza individuale. I professionisti della salute devono essere capaci di integrare la conoscenza scientifica della malattia e dei trattamenti con la comprensione del singolo paziente e di formulare un giudizio clinico che sia utile per questo paziente, con questo particolare problema, a questo punto della sua vita.

La formazione degli operatori sanitari necessita di attraversare l’esperienza della costruzione e interpretazione di storie, anche di tipo funzionale, ossia l’esperienza delle Medical Humanities.

Come raccogliere la narrazione del paziente?

Uno degli strumenti di cui si avvale la Medicina Narrativa è la fiaba.

L’antropologo e linguista russo, Vladimir Propp studiò le origini storiche della fiaba nelle società tribali e nel rito di iniziazione e scoprì una ricorrenza ben definita che si ripeteva sempre e che propose come modello di tutte le narrazioni. Lo schema generale di una fiaba, secondo Propp, è il seguente:

Equilibrio iniziale (esordio);

Rottura dell’equilibrio iniziale (movente o complicazione);

Peripezie dell’eroe;

Ristabilimento dell’equilibrio (conclusione).

Di seguito è riportata la narrazione, attraverso una fiaba, di un paziente del Centro per la Diagnosi e Terapia dell’Ipertensione Arteriosa dell’AORN “A. Cardarelli” di Napoli. La condizione di cronicità, come può essere quella legata all’ipertensione, passa attraverso l’accettazione di “non essere più come prima”, della continuità delle cure, di una eventuale dipendenza dagli altri e richiede la ricerca di un nuovo equilibrio, di un nuovo senso nella propria vita e magari la ricostruzione dell’identità. Non si è trattato di un racconto libero, come dicevo, ma di una fiaba guidata da alcuni incipit che hanno funzionato da guida facilitando il compito dello scrittore e che in qualche modo lo hanno indirizzato a “narrare” di alcuni aspetti piuttosto che di altri.

Inizia come tutte le fiabe con:










Invito tutti i colleghi a cimentarsi in questo necessario esercizio di integrazione tra Evidence-Based Medicine e Narrative-Based Medicine e a inviarmi le narrazioni loro o quelle dei loro pazienti.

Ringrazio Ferdinando Bosone per il suo contributo, e due medici speciali, Marinella D’Avino e Mimmo Caruso (Centro per la Diagnosi e Terapia dell’Ipertensione Arteriosa dell’AORN “A. Cardarelli” di Napoli) che hanno accolto e raccolto la sfida “narrativa” dei nostri tempi (e chi la portava alla loro attenzione e sensibilità!) coniugando il sapere con il saper fare e il sapere essere e realizzando una maggiore centralità del paziente nei processi di assistenza e cura, riconoscendo la sua soggettività, la sua volontà di sapere della malattia di cui soffre e delle scelte terapeutiche a disposizione, la sua autonomia decisionale nel partecipare consapevolmente alla gestione della proprio percorso di cura.

To be continued