Invito alla lettura: “Vorrei conoscerti”

Daniela Scala

AORN A. Cardarelli, Napoli

sdaniela2000@yahoo.com

Care colleghe e cari colleghi,

in questo numero, come spunto per la riflessione sul bisogno di una “sanità” (e non solo la sanità!) che sia realmente più vicina al paziente ed alla sua famiglia, vi propongo alcuni brani tratti da Vorrei conoscerti di Mario Marino, ingegnere “umanista” – come ama definirsi. Mario racconta, con l’emozione partecipativa e coinvolgente di un padre, il percorso evolutivo di un ragazzo originale, intelligente e sensibile, suo figlio Luca, affetto da un disturbo del comportamento e della sfera emozionale e gravato da alcune difficoltà prassiche e di coordinamento motorio. Un disturbo insidioso, di origine ignota e sviluppo imprevedibile, fonte di impatto evidente negli ordinari contesti sociali e di sofferenza inspiegabile per il nucleo familiare e propri sacri affetti.

Nella forma di un diario di circa dodici anni, il volume descrive le esperienze ed i sentimenti di due genitori impreparati che, temendo di rimanere soli, sempre fiduciosi e mai rassegnati, stimolati dall’amore e dall’affetto per il loro bene più prezioso, hanno affrontato un faticoso cammino di crescita, con impegno instancabile e con tanta dignità, alleviato dal sostegno di una guida straordinariamente competente e da alcune persone che a vario titolo hanno contribuito ad aiutarli.

Ringrazio Mario per avere messo su carta la sua storia che può essere di aiuto e conforto per chi vive la stessa esperienza e monito e stimolo per il mondo delle istituzioni, della scuola e della sanità.




Vorrei conoscerti
Mario Marino

Ho espresso in forma scritta le emozioni e le esperienze vissute nel corso di circa quindici anni della mia vita inizialmente per alleviare le mie sofferenze e provare benessere.

Rileggendo la memoria e aggiornandola periodicamente, riflettevo sul lavoro intrapreso, sulle competenze e sui bisogni di mio figlio, e coglievo spunti per avviare nuove attività abilitative. Concentrato nella scrittura, incalzato dalla volontà e dal senso del dovere, mi consolavo dei traguardi raggiunti e delle mie capacità introspettive, e mi sembrava di entrare in sintonia con la mia stessa opera.

Sorpreso e allietato dalla rinascita di mio figlio, orgoglioso di poter descrivere un’ esperienza di sofferenza e per certi aspetti di successo, nonché una metodologia abilitativa familiare semplice e originale, ho ritenuto, forse con presunzione, che la divulgazione e la diffusione del testo potesse essere di utilità ad altre famiglie gravate da difficoltà analoghe.

Avendo condiviso con nostro figlio la decisione di pubblicare il testo, rinunciando coraggiosamente alla nostra riservatezza per descrivere onestamente la nostra storia, ci prefiggiamo di rendere giustizia alle capacità di una persona originale e straordinaria, inconsapevole ed incolpevole vittima di innumerevoli ingiustizie ed incomprensioni, al fine di aiutarla a conseguire il benessere di cui ha diritto.

La scoperta della diversità

(…) Con il trascorrere dei giorni iniziò ad alimentarsi in noi una certa inquietudine.

Constatavamo che la vivacità di nostro figlio, contenuta fino a dieci mesi, diventasse sempre più esplosiva ed incontrollabile, al punto da renderlo un bambino ingestibile. Ci risultava difficile portarlo a passeggio senza imbatterci in un pianto strozzante ed ininterrotto, partecipare ad una festa in famiglia senza vederlo rompere i giocattoli, smanacciare la torta, correre continuamente.

(…) Speravamo intimamente che Luca fosse un bambino “normale”, che si distinguesse dai suoi coetanei per originalità ed eclettismo, che avesse solo un carattere difficile. Era una speranza fondata, in lui quelle doti non mancavano, ma c’era anche dell’altro. Ci accorgevamo di avere di fronte un bambino emotivamente fragile, poco coordinato e goffo, in difficoltà nella percezione dello spazio e del tempo, poco resistente agli stimoli della stanchezza e dell’appetito, con poca capacità di concentrazione, e che, pur cercando la relazione con gli altri, tendeva all’evasione ed al soliloquio, ed a comportamenti bizzarri e ripetitivi, come il saltare su se stesso o il gesticolare ridendo.

(…) Emergevano, in parallelo, notevoli doti mnemoniche, soprattutto visive ed uditive, e di apprendimento per confronto. Osservatore acutissimo, era curioso ed interessato alla conoscenza degli oggetti, delle diverse forme geometriche, dei nomi e tipologie degli animali, della varietà dei colori, dei motivi musicali, delle canzoni e delle storielle raccontate. Amava la varietà e la ricchezza dei prodotti alimentari ed apprezzava la buona cucina. Inoltre era dolce e carnale, amava essere accarezzato e spupazzato. Con me si instaurò presto un rapporto speciale, animato dal contatto fisico, dal solletico, da un linguaggio convenzionale con tante espressioni dialettali, intese e gioco corporeo. Creammo un nostro cerimoniale, arricchito dai suoi contributi ed adattato alle sue esigenze, che costituì la base del nostro sostegno alla sua evoluzione. (…)

Il primo contatto con il mondo sanitario

(…) Mestamente, ignari del “mondo” che di lì a qualche anno ci si sarebbe prospettato, ci presentammo nei giorni successivi presso il padiglione indicatoci, riscontrando una situazione avvilente. Le “osservazioni” dei bambini non prevedevano prenotazioni o appuntamenti, ed avvenivano in un angusto piano interrato, affollatissimo. Dopo una lunga attesa, ci accolse un medico anziano che, osservato superficialmente il bambino, ascoltate sommariamente le nostre richieste di aiuto, e considerata a suo dire la gravità degli altri casi da gestire, ci congedò bonariamente, con un flemmatico: “Non vi preoccupate, fossero tutte chist e’ problem …”.

Ne uscimmo notevolmente risollevati, ma al tempo stesso sconfortati ed incerti sul da fare. (…)

Appaiono in tutta evidenza, nella situazione descritta, l’impreparazione culturale della famiglia, i limiti e l’inadeguatezza della medicina di base, incapace di individuare e circoscrivere la criticità, e di indirizzare adeguatamente i genitori verso l’approfondimento del problema presso le strutture specialistiche preposte.

È possibile e ragionevole sostenere che, in particolare nei casi limite del tipo illustrato, in cui le fondamentali potenzialità cognitive e funzionali del bambino non risultano compromesse, una adeguata campagna informativa rivolta alle famiglie e alle giovani coppie in merito al panorama delle manifestazioni di disagio e alla utilità dell’intervento terapeutico, unitamente ad una adeguata diagnosi precoce, avrebbero sostanzialmente ridimensionato la portata del problema, oltre che attenuato l’entità dei costi sociali sostenuti dalla famiglia e dalle istituzioni.

(…) Le sue difficoltà emersero presto in tutta la loro dolorosa evidenza. Il bambino iniziò a relazionarsi esclusivamente con gli adulti. Ne traeva evidentemente comprensione e sicurezza.

Consapevole delle sue difficoltà, mi attivai con la struttura territoriale di neuropsichiatria infantile, sottoponendolo all’osservazione degli specialisti. Una dottoressa del presidio di Carpi, dolce ma evidentemente non sufficientemente attenta, concluse, dopo tre incontri, che Luca fosse un bambino dolce ed esuberante, privo di patologie. Ciò da un lato ci produsse sollievo, dall’altro, ancora una volta, ci lasciò inermi e nella solitudine, al cospetto di oggettive difficoltà.

Per un ulteriore approfondimento, teso ad escludere presunti disturbi di origine alimentare, fummo indirizzati presso il Policlinico di Modena, dove ci recammo dopo alcuni giorni.

Dopo una lunga attesa, durante la quale ebbi modo di constatare la competenza degli addetti, prima di essere sottoposti alla visita percepii che Luca, stanco ed affamato, avrebbe dato il peggio di sé. Così accadde. La dottoressa, dopo aver osservato il bambino, mi anticipò che lo avrebbe provocato. Luca reagì con una crisi isterica. Tanto le bastò per prescrivere un trattamento psicoterapico a tutta la famiglia, con indicazione dei professionisti, di indiscussa competenza, a cui avremmo potuto rivolgerci. Ne uscii distrutto, scettico per tradizione familiare sulla utilità della disciplina – oggi aggiungerei per ignoranza ed ottusità –, ma almeno, per la prima volta, con indicazioni chiare sul da farsi.

Fatta una veloce riflessione, individuammo una psicoterapeuta modenese, e Luca iniziò ad essere seguito. Dopo alcuni mesi di terapia, la dottoressa ci evidenziò la necessità di integrare la sua attività con un trattamento di psicomotricità. Ci consigliò di avvalerci della struttura territoriale di Carpi, che vantava, proprio nel presidio di Campogalliano, la competenza di una professionista di altissimo profilo. Luca intraprese in tal modo un percorso parallelo con Rita, dolce e bellissima “abilitatrice” della motricità fine, del riconoscimento e controllo del proprio corpo, del coordinamento psicomotorio. Lo accoglieva sempre con il sorriso, e Luca era felice di incontrarla. Nel tempo, anche per constatazione diretta, ebbi modo di capire che aveva aiutato bambini con difficoltà enormi e che sarebbe stata in grado, per esperienza anche pratica, di darmi un parere attendibile su quale fossero le prospettive di Luca.

Alcune settimane dopo, per la prima volta da quando avevo iniziato ad esplorare il mondo pauroso e proibito del disagio mentale, sentii esprimere da una persona di indubbia competenza e conoscenza, un giudizio lusinghiero sulla dolcezza del bambino, sulle sue capacità, sulla necessità che dovessimo comprendere e rispettare le sue esigenze.

Rita escluse in modo categorico, sulla base dei sintomi, delle sue reazioni agli stimoli, del suo orientamento alla relazione, che nostro figlio fosse affetto da una qualche forma, anche lieve, di autismo. Ci invitò con severità a non alimentare in noi e negli altri alcun dubbio, ed a non associare mai quella parola a Luca.

A fronte delle lamentele continue ed insistenti della scuola, Rita si recò più volte ad osservare i comportamenti del bambino ed a spiegare agli insegnanti le sue difficoltà.

I responsabili ci chiesero di contribuire al pagamento di un giovane educatore, individuato appositamente per aiutare Luca a partecipare alle attività didattiche.

Il mio povero Luca, in quella scuola di Campogalliano, la sua scuola materna.

Lo vedevo uscire sempre solo, triste e stralunato. Rifiutava l’obbligo di riposare il pomeriggio. Ricevevo telefonate in cui mi si chiedeva di andare a prelevarlo per la febbre, che talvolta non riscontravamo. Partecipava alle recite senza svolgere praticamente nessun ruolo. Fu escluso da un corso facoltativo di avviamento alla lingua inglese. E gli sguardi scostanti delle maestrine, inesperte e presuntuose. In due anni di frequentazione scolastica, ricevette un solo invito di compleanno, ad una festa di una compagna, in un parchetto del paese. Accettò con il solito entusiasmo.

Per come ho avuto modo di conoscere mio figlio nel tempo, quanto deve aver sofferto le esclusioni, la disistima, la delusione negli sguardi. La avrà colta spesso anche nei nostri.

Riuscimmo con fatica a fargli frequentare alcuni bambini del paese, ma evidentemente era già stato “bollato”.

La chiusura culturale e l’inadeguatezza del contesto sociale ci lasciarono nel nostro isolamento, fino a convincerci, dopo due anni dal nostro arrivo, di trasferirci a Bologna.

Accanto a tutte le difficoltà descritte, in un quadro complesso ed articolato, di difficile lettura per chiunque, tante le attestazioni di intelligenza, di salute e di coerenza, di desiderio di ricevere amore in modo incondizionato.

Una mattina di agosto Luca, bambino di quattro anni, presenziava ad un incontro ludico sulla spiaggia, con adulti ed altri bambini. Si assentò nei suoi soliti soliloqui, gesticolando e restando completamente estraneo all’attività.

Frustrato e stizzito per la sua incapacità di partecipare, gli tirai impulsivamente un orecchio, cercando di destare la sua attenzione e riportarlo nella realtà. Colto alla sprovvista e sofferente per il gesto subito – Luca ha sempre ripudiato qualunque forma di violenza fisica –, mi rispose singhiozzante: “non mi fare del male papà!, io non sono un monello … sono solo diverso”. Quelle parole, e quel pianto supplichevole, restano stampate nella mia memoria, unitamente al mio senso di colpa.

Alcuni anni più tardi, nel corso della mia esperienza di cambusiere al suo primo campo scout – cercavo di sostenere mio figlio nell’esperienza, ed i capi nel comprendere le sue esigenze – conobbi Stefania, la madre di Carlo, a cui confidai le mie sofferenze. Alla fine del campo le chiesi di favorire un’amicizia tra i nostri figli. Carlo invitò Luca a casa sua prima dell’inizio della scuola. “Da quel giorno siamo rimasti amici per sempre”, racconta Luca, orgoglioso di frequentare un ragazzo brillante e generoso, estroverso e solare, coinvolgente e grande trascinatore.

Molti anni più tardi Stefania mi ha riferito che quel giorno Luca, dopo aver partecipato proficuamente a varie attività, afferrò improvvisamente un vaso pregiato e, impassibile all’invito di riporlo, lo lasciò cadere affermando: “Ora che ho rotto il vaso, siete ancora disposti ad essere miei amici e ad accogliermi a casa vostra?”.

Ebbe inizio un’amicizia profonda, che ha visto Carlo e Luca condividere, negli anni, numerosi interessi ed attività, dagli scout alla musica, dai campi estivi ai viaggi, dalle vacanze al rugby. Un giorno di alcuni anni dopo, passando in rassegna alcune delle sue “cose sbagliate”, Luca si mortificò e Carlo gli disse con parole geniali: “Luca, non ti preoccupare, sarò sempre tuo amico, anche se non smetterai mai di farle!”.

Un’estate al mare, il 29 luglio 2007, Luca mi comunica orgoglioso: “Papà, ho preso una decisione: voglio fare le cose giuste!”. Lavoravamo con lui e su di lui incessantemente da quasi cinque anni. Il primo segnale, forte e distinto, di un’inversione di rotta. Luca ha quella data ancora impressa nella sua memoria.(…)

Quanto grande è il costo sociale della lontananza di un genitore per motivi di lavoro (Mario per un periodo di tempo ha lavorato lontano dalla famiglia cui si ricongiungeva durante il fine settimana)? Di un trasferimento di sede e di casa, di un allontanamento dai propri affetti e riferimenti per un bambino in difficoltà come Luca (in seguito la famiglia si trasferisce lontano dal luogo nativo)? E quanto grande per un nucleo famigliare in difficoltà, che il destino e gli eventi hanno spinto lontano dalla loro città di origine, può essere il beneficio costituito da una rete di relazioni sociali? A chi compete costruire queste ultime se il bambino è desideroso di averne ma ha difficoltà ad instaurarle? Solo ai genitori? Qual è il ruolo svolto della scuola, istituzione preposta alla integrazione sociale del bambino? Quale quello dei referenti designati da essa per svolgere l’attività di mediazione? Chi deve preoccuparsi della loro selezione, formazione professionale e preparazione allo svolgimento del ruolo?

(…) Avrei immaginato e desiderato, per nostro figlio, una scuola moderna, ricca di spazi di aggregazione, di aule gradevoli, di laboratori didattici e di postazioni computerizzate. Luca vi avrebbe incontrato compagni sensibili e affettuosi, e professori appassionati e generosi. Una scuola senza voti e senza verifiche, accogliente e coinvolgente, capace di sviluppare la sensibilità nei ragazzi e di alimentare il piacere della conoscenza.

Una scuola che favorisse la partecipazione e l’integrazione di nostro figlio, aiutandolo ad imparare a diventare un cittadino del mondo.

Quella scuola avrebbe designato un referente unico, competente ed autorevole, per concepire e coordinare un progetto formativo adattato alle peculiarità del ragazzo, realizzabile con poche e qualificate risorse: Luca, un gruppo di compagni motivati, e l’attività di un bravo mediatore. Un referente illuminato, carismatico, capace di individuare il bisogno e di assortire gli ingredienti. Un bravo sarto che confeziona un abito su misura ad un cliente con alcune lievi imperfezioni fisiche.

Purtroppo non è andata così. Luca non ha frequentato né conosciuto questa scuola, almeno per gran parte del suo percorso scolastico. (…)

L’esperienza vissuta dall’autore mette in evidenza le carenze strutturali nel Sistema Sanitario Nazionale, anche nel caso di realtà notoriamente efficienti come quella emiliana, in particolare nelle situazioni legate ai cambi di residenza e di presa in carico delle strutture territoriali di riferimento. I tempi di attesa per colloqui conoscitivi, individuazione della diagnosi e avvio delle attività terapeutiche sono risultati troppo lunghi e comunque incompatibili con i bisogni della famiglia e del bambino, in particolare nei casi di ridotta adattabilità di quest’ultimo ai cambiamenti. Genitori proattivi e premurosi, in preda all’ansia, tendono a rivolgersi alle strutture ospedaliere, che, operando in modo non coordinato con quelle territoriali, sottovalutano la fragilità e l’inesperienza dei genitori inducendoli talvolta a scelte improprie o divergenti rispetto al percorso già intrapreso.

(…) In preda all’ansia, incautamente e disattendendo le indicazioni della terapeuta modenese – che ci aveva consigliato di affidarci esclusivamente alla struttura territoriale, della cui affidabilità aveva peraltro assunto informazioni –, cercammo un professionista che ci aiutasse nella fase transitoria.

Mi fu indicato uno psicologo ospedaliero, presso cui ci recammo fiduciosi. Avevamo atteso a lungo l’appuntamento, ignari di ciò che ci sarebbe accaduto. Dopo una veloce osservazione e l’invito a compilare un modulo di intervista lunghissimo, l’ammissione di incompetenza rispetto al problema di Luca, ed il consiglio di rivolgerci privatamente ad una esperta del settore.

Ingenui e disorientati, dopo qualche settimana ci recammo in tre, un pomeriggio, forse uno dei più tristi della mia vita, nel suo studio. Ci imbattemmo in una “commerciante”, titolata ed arrogante, che, dopo una osservazione superficiale, di pochi minuti, sentenziò lo stato di grave malattia nel bambino, riconducibile ad un inviluppo delle più varie patologie (dalla psicosi all’autismo), senza esibire una diagnosi circoscritta, un referto scritto o una ricevuta fiscale: “la situazione è grave, c’è solo il 20% di probabilità di recupero, forse meno”, mi comunicò, mentre il povero Luca era da solo in una stanza a giocare e Caterina si era allontanata nella toilette.

“Guardi che si sbaglia, con mio figlio io parlo, trascorro momenti piacevoli … mi sembra che abbia molte doti ...”, le dissi balbettando, in preda alla disperazione, mentre mia moglie rientrava.

“Ma cosa pensa che possa capire di quello che vi dite!”, mi rispose, con tono scettico e presuntuoso.

Avrei dovuto reagire orgoglioso, rinnegando consapevolmente le sue affermazioni, come mi capitò di fare negli anni successivi, in un paio di circostanze. Avrei dovuto lasciare senza indugio quello studio tenebroso, quella vecchia megera, portatrice di lutto e di miseria umana.

Avvilito e sconfortato, le chiesi invece con tono dimesso e supplichevole: “Cosa ne sarà di lui?”, con l’ingenuità di chi cerca una prospettiva su cui alimentare le proprie speranze, ed è disposto ad accettare qualunque condizione nella resa.

“Mi spiace, ma per i ragazzi come lui, generalmente, la migliore prospettiva per il futuro sarà quella di essere accolto e coinvolto nelle attività di volontariato negli ambienti parrocchiali, quelli che ne avranno la disponibilità. Qui a Bologna ce ne sono molti, si cominci ad informare!

L’unica remota possibilità che ci rimane per recuperarlo è quella di affidarvi ad una terapia intensa, di almeno tre sedute a settimana. Proverò a sondare la disponibilità di qualcuna delle mie assistenti. Voi intanto fate le vostre valutazioni, anche in relazione alla spesa a cui andrete incontro. Vi chiamerò la prossima settimana e mi comunicherete la vostra decisione”.

Uscimmo distrutti. Ho sempre reagito male alle notizie avvilenti, che ti lasciano inerme ed impotente, senza vie d’uscita. Ho mostrato sempre tanta fragilità, senza l’adeguato sostegno di certi riferimenti, dei miei riferimenti (i miei genitori, i nostri rispettivi strettissimi fratelli, e, più tardi, l’immenso Giancarlo).

Il povero Luca, ignaro di tutto, ci seguì, esprimendo parole di apprezzamento e simpatia per quella ignobile figura.

Fragili ed immaturi, rimanemmo folgorati come se si fosse trattato della prima osservazione; come se gli anni trascorsi, le terapie intraprese, il lavoro avviato, fossero stati improvvisamente cancellati.

Provai, per la prima volta nella mia vita, un sentimento di disperazione profonda.

Piansi per ore, come un bambino. Mi sembrava di aver fatto un brutto sogno. Avevo ascoltato per la prima volta, da un addetto ai lavori, quello che temevo nel profondo. L’angoscia e l’avvilimento mi impedivano di esaminare con oggettività la situazione. Non potevo spiegare a Luca l’accaduto e credo che lui percepisse perfettamente il mio stato d’animo, nonostante mi sforzassi di nasconderlo. Sopraggiunsero l’inappetenza, la dimissione fisica e la spossatezza, e trascorsi a letto tutto il giorno, trascurando le richieste di Luca di giocare con lui.

Caterina, soffrendo in silenzio, senza le mie esternazioni, più lucida e coerente come sempre, mi invitò a reagire. Ha sempre mostrato più forza di me nei momenti veramente difficili, quelli che non sembrano lasciare vie d’uscita. Il suo sostegno sono sempre state le lunghe telefonate con nonna Mimì, ricche di affetto discreto e condivisione profonda, e con suo fratello Luigi, premuroso e protettivo, nonostante la distanza. (…)

Al termine di una ricerca e di tentativi durati circa tre anni, i genitori incontrano finalmente la persona giusta, che li aiuta ad entrare in contatto con il loro “figlio reale”. Si tratta di un professionista della struttura territoriale, che, al termine di una attenta osservazione del bambino, individua e coordina un suo percorso evolutivo basato su terapie mirate e soprattutto, in parallelo, sulla formazione dei genitori attraverso il sostegno periodico alle loro attività. Alimentando la motivazione e la fiducia nelle loro capacità, valorizzando le numerose doti e potenzialità del loro bambino, senza sminuire la severità del problema, il medico metterà a punto un progetto multidisciplinare, ricco di attività, semplice e al tempo stesso intenso, benché non privo di ostacoli, che vedrà impegnati stabilmente e armoniosamente per molti anni, con opportuni adeguamenti la famiglia, il medico, alcuni terapeuti e la scuola.

(…) Poco prima dell’incontro con l’insensibile professoressa, avevamo incontrato Giancarlo, il medico della struttura territoriale assegnatoci d’”ufficio” dall’ASL di Bologna, l’artefice della nostra svolta, la guida del nostro percorso.

Professionista pacato, riflessivo e riservato, di cui ho avuto soggezione dal primo incontro; imperturbabile, dotato di infinita competenza e di grande autorevolezza. Un medico che aveva maturato una profonda conoscenza ed esperienza della relazione tra l’anima ed il corpo, tra la mente ed il cuore. Un uomo emotivamente distaccato – forse per attitudine del carattere, forse per necessità professionale – ma ricco di umanità ed interprete geniale delle esigenze e dei disagi di nostro figlio.

Lo osservò approfonditamente, da solo, in più incontri, proprio nel periodo del nostro smarrimento, quello più difficile della nostra vita. (…)

(…) Con lo stato d’animo dimesso e supplichevole di chi non vede via d’uscita, “cornuti e mazziati”, ci presentammo qualche mattina dopo da Giancarlo, che ci aveva convocati, al termine degli incontri con Luca, per riferirci degli esiti dell’osservazione.

Ci restituì più o meno questa diagnosi “funzionale”: “disturbo evolutivo misto della condotta e della sfera emozionale, aggravato da evidenti difficoltà prassiche e di coordinamento motorio”.

Una diagnosi severa e circoscritta, come ci riferirà alcuni anni dopo, quando se ne rese necessaria una rivisitazione aggiornata, che in ogni caso escludeva categoricamente l’autismo.

In risposta alle nostre frequenti domande ed interrogativi logoranti, Giancarlo ci insegnò a distinguere rigorosamente tra i sintomi e le affezioni di una patologia ed alcuni “tratti” riconducibili alla stessa.

A nulla sarebbe servito, nonché sarebbe risultato del tutto improprio, cercare a tutti i costi di ricondurre o catalogare le difficoltà di Luca all’interno di una “sindrome”. Sarebbe stato molto più utile individuare e circoscrivere tali difficoltà ed adottare le più efficaci metodologie abilitative per superarle.

Si trattava inoltre di una diagnosi non priva di prospettive, in quanto certificava un disturbo di tipo “evolutivo”, come capirò meglio con il suo aiuto ed approfondendo le mie ricerche, leggendo, logorandomi per cercare risposte ad un fenomeno inspiegabile.

“Non sappiamo dove il bambino potrà arrivare, ma, finché si registreranno progressi e recuperi comportamentali, non potrà parlarsi di handicap”, ci disse dopo le continue, pressanti richieste di chiarimento che gli ponemmo nei mesi successivi.

Ci consigliò di sostenere subito Luca nelle attività scolastiche, esibendo la diagnosi di cui disponevamo, e di intraprendere un percorso abilitativo che avrebbe escluso nell’immediato la psicoterapia, privilegiando una terapia psicomotricistica, di cui il bambino aveva più urgente bisogno.

Il resto del lavoro sarebbe spettato a noi, con il suo aiuto e sostegno, in qualità di responsabile e coordinatore del progetto abilitativo.

Non completamente convinto dalle sue parole, e scettico sulle prospettive di una terapia che mi sembrava poco “energica” – addirittura apparentemente meno impegnativa di quella adottata a Campogalliano –, gli chiesi, quasi sfacciatamente, se la soluzione del “problema”, che da ingegnere non riuscivo a “dominare”, fosse conseguibile più rapidamente in una qualche parte del mondo, con una terapia di avanguardia, anche costosa. Mi rispose, imperturbabile e con tono fermo e convincente, più o meno con queste parole:

“Non cercate ciò che non esiste. Qualunque professionista dedicherebbe a Luca un tempo limitato ed insufficiente. Non c’è terapia che possa essere continuativa e duratura quanto il lavoro di due genitori motivati e competenti. Per i progressi di Luca il ruolo e l’impegno di voi genitori sarà fondamentale, più di quanto non pensiate. Io vi sosterrò con confronti periodici, e vi supporterò indicandovi le scelte terapeutiche che nel tempo si renderanno necessarie”.

Dopo anni di dubbi e di negazioni, anche a noi stessi, avvalorate da alcuni pareri medici e da tanti momenti di gioia e partecipazione che Luca ci donava, “finalmente” le conferme che temevamo. Dovevamo prendere atto di un disturbo psico-fisico ad ampio spettro. Dopo aver intimamente sperato che Luca fosse un bambino “normale”, quella diagnosi descrittiva inquadrava il disagio di un bambino emotivamente fragile, poco coordinato e goffo, poco resistente agli stimoli, con poca capacità di concentrazione. Un bambino che, pur cercando la relazione con gli altri, reagiva alla frustrazione con l’evasione, il soliloquio, con comportamenti bizzarri e ripetitivi, o, frequentemente, a causa della difficoltà di autocontrollo, con impulsi rabbiosi ed urla.

Un bambino a cui non mancava nulla; ma paragonabile, per gli aspetti organizzativi e prassici, ad una scatola contenente un kit completo di costruzione priva del libretto delle istruzioni, mi spiegherà Giancarlo.

In parallelo, ricevevamo ciò che per anni avevamo cercato.

Prendevamo coscienza del fatto che il nostro comportamento sarebbe stato determinante per la cura ed il benessere di nostro figlio. Ci veniva affidato un compito preciso, unitamente alla fondamentale fonte di speranza, di cui solo nel tempo capiremo il significato profondo: si trattava di una diagnosi “evolutiva”, cioè modificabile col tempo, con la crescita, con il lavoro e con l’impegno.

L’attività di sostegno genitoriale ha affiancato e permeato tutto il percorso evolutivo della famiglia. Si è svolta sempre in un “clima” sereno, partecipativo ed empatico, in grado di agevolare il duplice obiettivo di alleviare il peso degli impegni ed il senso di responsabilità dei genitori, salvaguardandone la stabilità emotiva, e di tutelare i bisogni e gli interessi del bambino.

Da quel momento, dopo lo scossone ricevuto quasi occasionalmente, e l’incontro fortunato con Giancarlo, ebbero avvio il nostro percorso di vita verso l’accettazione di nostro figlio, e quello evolutivo di Luca.

Per tutti noi un cammino lungo, faticoso ed impervio, privo di certezze, costellato da tanti insuccessi, situazioni di conflitto, talvolta da momenti di disperazione, ma prodigo di soddisfazioni, come quello delle ardue salite in bicicletta che ho iniziato a percorrere con i miei amici bolognesi, delle quali avevo il terrore, e che oggi amo più di ogni cosa. È difficile spiegare il piacere che si prova ponendo lo sguardo verso il basso al raggiungimento di ogni tornante, constatando la strada percorsa, il dislivello superato ed i risultati raggiunti, ed abbracciando i compagni al termine della salita.

Mia madre, a cui riferii dell’incontro con Giancarlo, da sempre orgogliosa di me e convinta delle mie capacità, non perse l’occasione per raccomandarmi: “Mario, dagli tutto, dai a Luca tutto te stesso!”. Ho sempre registrato le richieste e raccomandazioni dei miei genitori vivendole con senso del dovere, sentendone il peso della responsabilità.

La guida sicura nel nostro cammino, la fonte carismatica capace di orientare i nostri comportamenti, di indirizzare il nostro lavoro, di tenere ferma e costante la determinazione verso i risultati attesi, di valorizzare le nostre doti ed attivare i neuroni della mia fantasia terapeutica, costituiscono le doti riconducibili ad un medico, all’uomo che con i silenzi e le parole opportune ha lentamente trasformato un uomo fragile ed ansioso in una macchina implacabile.

Individualista ed affamato di successo professionale, ho cominciato, quasi improvvisamente, a mettere da parte le ambizioni. Pieno di aspettativa verso il mio unico erede, mi sono industriato, facendo appello alla fantasia, all’ingegno, all’intuito, per ricercare metodologie, strumenti e modalità di gioco adatti alle sue esigenze, ed utili al miglioramento delle sue competenze. Ed ho costruito, pian piano, con tenacia e pazienza, una rete di rapporti interpersonali necessari a consentire l’accettazione sociale della mia famiglia. (…)

Perché lasciare questa opportunità al caso? Il caso o la fortuna, o come lo vogliamo chiamare, ha fatto incontrare Mario e Giancarlo. Giancarlo, l’uomo e il medico che hanno permesso la svolta “evolutiva” di Luca e dei suoi genitori, sintesi vivente e vincente di expertise tecnico e competenza relazionale, persona capace di rispondere, da un lato, al bisogno di “spiegazione” razionale, tecnica (la diagnosi e successiva terapia) e dall’altro di “comprensione” nel senso di sostegno e accompagnamento, di guida e riferimento.

To be continued…