Sessione plenaria

Innovazione e salute pubblica
Introduzione di Giovanna Scroccaro
Presidente della SIFO

Innanzitutto un saluto a tutti e un ringraziamento per tutti coloro che sono intervenuti a questo congresso. Questa sessione si apre con una mia introduzione; seguiranno poi le presentazioni del dottor Zucchelli, medico, sottosegretario al Ministero della Salute, del professor Schiattarella, economista e professore di politica economica all’Università di Camerino, per concludere con la relazione del dottor Tognoni, farmacologo che molti di noi conoscono, direttore dell’Istituto di ricerca Mario Negri Sud.
La mia relazione si focalizza su alcune criticità che si riscontrano quando si discute di innovazione, salute pubblica, efficacia, equità, economia ed etica.
Efficacia, superiorità e innovatività
Come diceva il relatore che mi ha preceduto, per poter parlare di efficacia clinica abbiamo bisogno di avere condotto delle sperimentazioni controllate; per poter dire che la nuova tecnologia è superiore ci devono essere dei dati robusti che dimostrino che effettivamente c’è un vantaggio rispetto al miglior trattamento disponibile. Un farmaco o una tecnologia sono innovativi quando modificano in modo rilevante le condizioni cliniche di un paziente; se questi sono i principi, la realtà autorizzativa è però diversa e lo dimostrerò con due esempi di nuovi antitumorali già approvati dall’EMEA, ma non ancora autorizzati dalla nostra Agenzia Italiana del Farmaco.
Farmaci registrati dall’EMEA
Riportiamo qui due esempi di nuovi farmaci registrati dall’EMEA, ma per i quali è lecito porsi dei dubbi sul reale beneficio clinico apportato.
Il primo esempio è rappresentato dal Bevacizumab nel trattamento di prima linea del carcinoma polmonare non a piccole cellule: lo studio che è stato pubblicato (Sandler A et al. N Engl J Med 2006; 355: 2542-50) è anche lo studio su cui si è basata la registrazione EMEA. I risultati di questo studio dimostrano che c’è un aumento nella sopravvivenza mediana di 12,3 mesi nel gruppo che viene trattato con il nuovo farmaco, rispetto a 10,3 mesi nel gruppo che riceve la chemioterapia standard. Quindi questa è la differenza nella sopravvivenza.
Se poi noi andiamo a vedere un altro parametro altrettanto importante, che è quello della sopravvivenza libera da malattia, vediamo che la situazione non cambia tanto: si passa dai 6,2 mesi nel braccio trattato con il nuovo farmaco a 4,5 mesi nel braccio trattato con la terapia convenzionale.
Nonostante queste minime differenze, l’organismo che emette il parere tecnico ha dato un parere positivo e l’ha giustificato dicendo che nonostante il miglioramento significativo sia modesto nella sopravvivenza complessiva, si ritiene comunque che questo sia un farmaco da introdurre sul mercato europeo.
Il secondo esempio è rappresentato dall’Erlotinib in associazione a Gemcitabina come prima linea nel trattamento di pazienti con tumore del pancreas; in uno studio (Moore MJ et al. J Clin Oncol 2007; 25: 1960-6), si è analizzato il beneficio procurato aggiungendo questo nuovo farmaco rispetto al trattamento standard. I risultati vengono mostrati nelle Figure 1-3. Anche per i non addetti ai lavori è evidente che le due curve della sopravvivenza complessiva sono praticamente sovrapponibili: il gruppo trattato con il nuovo farmaco ha una mediana di sopravvivenza di 6,24 mesi; il gruppo trattato con il trattamento di controllo, che non è il placebo, è il trattamento standard che viene utilizzato, quindi la sola Gemcitabina, è di 5,91 mesi. È veramente difficile capire quale sia la differenza tra 5,9 mesi e 6,2 mesi, perché stiamo parlando di giorni.









Di nuovo, se esaminiamo l’altro parametro importante, la sopravvivenza libera dalla malattia, abbiamo 3,75 mesi aggiungendo il nuovo farmaco e 3,55 mesi con il solo trattamento standard. Evidentemente questi numeri hanno creato una certa perplessità anche a livello di commissione tecnica (CHMP) che ha espresso un primo parere negativo in luglio, dicendo che gli effetti erano troppo marginali per rappresentare un beneficio clinico, e non andava dimenticato che questi farmaci danno un certo grado di tossicità.
Però, dopo un mese il dossier del farmaco è stato riesaminato, e si è ritenuto opportuno, – anche se da un punto di vista metodologico non è molto corretto – fare un’analisi per sottogruppi post-hoc, che è riuscita a dimostrare che c’era una risposta migliore in alcuni sottogruppi di pazienti che presentavano un rush cutaneo elevato, molto pesante anche come effetto collaterale; hanno inoltre analizzato più dettagliatamente il sottogruppo di pazienti con metastasi a distanza.
Vi ricordo che non è corretto sul piano metodologico basare le proprie osservazioni su analisi post-hoc non programmate all’inizio delle sperimentazioni.
In ogni caso questi sono i risultati delle analisi: la sopravvivenza nei pazienti con metastasi a distanza è di 5,93 mesi nei trattati con il farmaco e 5 mesi nei trattati con la terapia convenzionale. A questo punto sembrerebbe logico un parere negativo, e invece? Il CHMP ha espresso un parere positivo, ritenendo comunque che in questo sottogruppo di pazienti con metastasi a distanza ci fosse una sopravvivenza migliore, e chiedendo comunque alla ditta di condurre ulteriori studi per valutare meglio il grado di risposta nei pazienti che non presentavano rush, e identificando bio-marker genetici predittivi.
Chi decide la rimborsabilità?
Questi sono due esempi di farmaci registrati dall’EMEA: l’importante decisione che riguarda se e quanto rimborsare questi farmaci viene lasciata ai singoli Stati membri.
Per parlare di rimborsabilità, dovremmo fare riferimento al principio dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA); leggiamo il decreto del Presidente del Consiglio sui LEA: si dice che “vengono assicurati nel rispetto dei principi della dignità della persona, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure, della loro appropriatezza nonché dell’economicità dell’impiego delle risorse. Sono esclusi dai livelli essenziali di assistenza le prestazioni sanitarie che non soddisfano il principio dell’efficacia e dell’appropriatezza, ovvero la cui efficacia non è dimostrabile o che in presenza di altre forme di assistenza non soddisfino il principio dell’economicità dell’impiego delle risorse; ma se questo è vero, io mi chiedo allora se i principi dei LEA valgano anche per i farmaci.
In base all’atto costitutivo dell’Agenzia Italiana del Farmaco, è bene riportato che l’AIFA deve redigere l’elenco dei farmaci rimborsabili sulla base dei criteri di costo e di efficacia, in modo da assicurare il rispetto dei livelli di spesa.
Quindi noi auspichiamo che il farmaco venga valutato secondo il principio dei LEA: i farmaci che offrono dei benefici marginali e non soddisfano il principio dell’economicità delle risorse non dovrebbero essere rimborsati.
I meccanismi poco trasparenti di definizione dei prezzi
Parliamo ora di costi: i costi delle nuove tecnologie sono quasi sempre più elevati rispetto alle tecnologie esistenti, e non è molto trasparente il meccanismo con cui vengono definiti i prezzi dei nuovi farmaci.
Nella recente letteratura si sta sempre più affermando la necessità di avere prezzi che corrispondano al reale valore terapeutico: value based pricing.
Nella realtà, tuttavia, ciò che accade è che il sistema sanitario paga il farmaco in base all’investimento che ha fatto l’azienda, se l’azienda produttrice fa un investimento molto forte, ma i risultati che ne derivano sono scarsi, noi comunque paghiamo un prezzo elevato perché dobbiamo rifondere il prezzo pagato per la ricerca. Si sta discutendo molto del problema dei prezzi, non è un problema solo italiano; l’editore del Drug Therapeutic Bullettin ha scritto un articolo sul British Medical Journal (Iheanacho I. BMJ 2007; 335: 452), in cui dice: “lentamente, ma il mostro – e il mostro è il sistema regolatorio dei prezzi inglese – muore”; e ancora: “finalmente siamo arrivati che il sistema (che non teneva conto del valore effettivo dei farmaci) sta finalmente morendo, perché è stato sottoposto ad una critica da parte del ministero per l’equità nei rapporti commerciali, che invece cerca di promuovere il principio di un prezzo basato effettivamente sul valore procurato dal nuovo farmaco”.
Naturalmente questo articolo ha creato delle reazioni; la reazione del Capo esecutivo dell’associazione delle bioindustrie, che dice: “non è possibile pensare di passare ad un sistema di questo genere; se si passasse a questo sistema, noi abbandoneremo tutti gli investimenti in questo paese” (Burnand A. BMJ 2007; 335: 578).
Di nuovo ritorna questo concetto: il sistema sanitario paga gli investimenti, non paga i risultati.
C’è stata una replica a questa “minaccia” da parte di un nostro collega, Andrea Messori, che dice una cosa importante: “la missione di un sistema nazionale è quella di cercare di comperare un farmaco non comprando i milligrammi di sostanza attiva, ma comperando il beneficio che ne deriva, per cui se il beneficio è minimo, anche il prezzo dovrebbe essere rapportato” (Messori A. BMJ 2007; 335: 578).
Sempre a proposito di prezzi di farmaci mi ha molto colpito una pubblicazione recente su The Lancet (van Duppen et al. Lancet 2007; 370: 317-8) che cita un farmaco, ma questo esempio potrebbe essere applicato anche a tanti altri farmaci: si dice che il prezzo di questo farmaco in Belgio è di € 35.000 per paziente per anno; la compagnia che lo ha brevettato ha chiesto un compenso per il brevetto di 150-200 milioni di dollari americani, ma la ditta che commercializza questo farmaco sta avendo degli introiti che si aggirano sui 2 miliardi di dollari per anno.
Ma se questo è vero, ciò significa che la ricerca è stata più che pagata; al di là dei numeri e delle contestazioni, ciò che è profondamente vero è che non c’è trasparenza sul meccanismo di definizione dei prezzi: la ditta decide e gli acquirenti si devono adeguare. Si dice che i nuovi farmaci devono sostenere le spese della ricerca, ma l’industria farmaceutica non presenta in modo trasparente i dati di spesa e i ricavi.
È interessante la pubblicazione sul BMJ (Jack A. BMJ 2007; 335: 122-3) del forte messaggio “niente cure, niente costo. Il sistema sanitario pagherà solo quando il farmaco funziona, se il farmaco non funziona la ditta si farà carico per intero della spesa generata”.
Sembra proprio che il dibattito sui costi dei farmaci sia molto sentito in tanti Paesi!!!
Il Technology Assessment: necessità di attivare
un programma nazionale tenendo conto
delle esperienze regionali
Un modo per affrontare la complessa relazione tra efficacia e costi è il Technology Assessment (TA); il TA è un processo che mette insieme le evidenze scientifiche disponibili per valutarne l’impatto sulla salute, economico, organizzativo, etico o sociale in modo da poter fornire gli elementi di valutazione a chi deve acquistare e utilizzare le tecnologie.
Non esiste un ente unico deputato a fare il TA: questo concetto è stato ribadito anche dalla “Carta di Trento”, documento che è stato stilato in occasione della costituzione del primo network di centri di TA in Italia (Figura 4).



Il TA può essere fatto a vari livelli, può essere fatto prima della registrazione, dopo la registrazione, a livello centrale, a livello locale; sicuramente non c’è solo un ente deputato a fare il TA.
Vi illustrerò ora due esempi di Stati europei dove si è maturata un’interessante esperienza di TA.
Un esempio è la Francia. Esiste un organismo, l’Haute Autorité de Santé (HAS) che è stato istituito nel 2004: è un’entità indipendente ma che riporta al governo e al Parlamento. L’HAS effettua sia l’assessment dei nuovi farmaci, che l’assessment dei nuovi dispositivi avvalendosi di due commissioni, la Commission de la Transparence (CT) e la Commission d’Évaluation des Produits et Prestation (CEPP).
Le commissioni: la prima CT valuta le richieste delle ditte farmaceutiche per i farmaci e decide se includerle nelle liste di rimborsabilità; la CEPP, e questo è l’aspetto molto interessante, valuta le richieste di inserimento di nuovi dispositivi medici per uso individuale, e decide se saranno o meno rimborsati dal servizio sanitario. Diversamente dall’Italia, il giudizio sulla rimborsabilità viene effettuato anche sui dispositivi medici.
Gli elementi che vengono valutati sono: il beneficio clinico e il beneficio terapeutico all’interno di una strategia terapeutica. Le valutazioni sono trasparenti e pubblicate sul sito dell’agenzia, le valutazioni sono suddivise con vari gradi di livello, di significatività, dal livello primo, prodotto considerato molto importante, al livello cinque, indicato come “assenza di miglioramento”.
Un altro esempio interessante è quello dell’esperienza inglese: nel 1999 è nato il National Institute for Clinical Excellence (NICE) che è responsabile di fornire indicazioni al servizio sanitario inglese sui nuovi trattamenti; valuta sia farmaci che dispositivi che altre tecnologie, e il servizio sanitario inglese è obbligato a rimborsare farmaci e altri trattamenti raccomandati dal NICE. Quindi il NICE non è un’agenzia registrativa, l’agenzia registrativa è un’altra; il NICE si focalizza sulle tecnologie dove vi è incertezza sull’effettivo valore terapeutico e le pratiche prescrittive sono molto variabili. Le raccomandazioni del NICE sostituiscono di fatto le raccomandazioni locali, in questo modo promuovono un atteggiamento uniforme su tutto il territorio inglese.
Come svolge il NICE la propria attività? Si avvale del lavoro fatto da una rete di Centri dell’HTA (Health Technology Assessment) che producono assessment per conto del NICE: vengono prodotti circa 20 assessment ogni anno su varie tecnologie.
In sintesi l’organizzazione è questa: c’è uno Stato che chiede al NICE (che a sua volta si avvale di una rete di centri di TA collocati presso varie università/ospedali) di esprimere un parere. Il NICE analizza gli assessment e si pronuncia con un parere, una linea-guida. I pareri del NICE sono vincolanti per il servizio sanitario inglese.
Particolare rilevanza nelle valutazioni del NICE rivestono la farmaco-economia con le valutazioni costo-efficacia: il NICE ha adottato l’approccio di definire per ogni nuova tecnologia il costo per QUALY e giudica favorevolmente le tecnologie che presentano un costo per QUALY al di sotto di una certa soglia definita. Il costo per QUALY non è l’unico parametro di riferimento, ma è certamente uno dei parametri che vengono tenuti fortemente in considerazione dal NICE.
E in Italia,
che cosa si potrebbe fare?
Mi è sembrato utile dare uno sguardo a qualche esperienza esistente di TA. Presenterò due esperienze regionali interessanti: una è quella dell’Emilia-Romagna perché credo che sicuramente sia la Regione che su questi aspetti ha lavorato di più, e la seconda è quella del Veneto, che nel settore dei prontuari ospedalieri ha sviluppato un’interessante esperienza di TA.
In Figura 5 è mostrato l’organigramma che illustra le relazioni tra il programma ricerca-innovazione dell’Emilia-Romagna, la commissione oncologica regionale, la commissione regionale del farmaco che redige un prontuario terapeutico regionale, e le Commissioni provinciali.






La parte sinistra della Figura 6, che è la parte che mi interessava presentarvi, mostra il progetto: questo prevede di produrre delle raccomandazioni relativamente ad alcuni farmaci, e anche esprimersi sull’impiego di particolari protocolli terapeutici in oncologia.
Sono state prodotte 25 raccomandazioni che riguardano le varie fasi: la fase adiuvante, la fase avanzata e i farmaci innovativi. Interessante vedere come è composto il panel che va a produrre queste raccomandazioni, un panel fortemente multidisciplinare, che comprende non solo i medici, i farmacisti, ma anche i pazienti, quindi questo è un panel che produce rapporti di TA (Figura 7).



Come vedete, ci sono anche in Italia delle esperienze interessanti di TA, anche se a livello regionale.
Cetuximab e Cr del colon-retto: ho preso l’esempio di questo farmaco perché la valutazione espressa è la medesima nelle due regioni Emilia-Romagna e Veneto: la commissione oncologica della Regione Emilia-Romagna ha rilevato che le evidenze su questo farmaco erano molto scarse, lo studio registrativo era veramente molto limitato ed è pertanto stato deciso che l’impiego del Cetuximab doveva essere limitato solo nell’ambito di sperimentazioni controllate perché non esiste un’evidenza tale da poterne proporre un uso allargato.
Questa raccomandazione è stata recepita dal prontuario terapeutico regionale, che lo ha escluso dal prontuario.
In Veneto, l’organizzazione per quanto riguarda la commissione regionale prontuario è la seguente: esiste una commissione regionale che definisce un prontuario regionale, stabilisce i farmaci che devono essere monitorati, e si rapporta con le commissioni terapeutiche locali, che hanno invece il compito di dare applicazione alle regole definite a livello regionale e monitorare l’uso dei farmaci (Figura 8).



La commissione regionale si avvale di un gruppo, l’Unità di Valutazione dell’Efficacia del Farmaco (UVEF), che produce per conto della commissione regionale, dei rapporti di TA sui nuovi farmaci; le decisioni vengono assunte tenendo conto dei rapporti di TA, oltre che di tutte le altre informazioni che si ritengono utili. Le valutazioni sono trasparenti, vengono trasmesse a tutte le commissioni terapeutiche locali attraverso un bollettino e un sito web.
Stesso farmaco, il Cetuximab, stesso periodo di valutazione; dati di efficacia non conclusivi, rapporto costo-efficacia non favorevole: anche nel Veneto, il farmaco non viene inserito nel prontuario regionale. C’è ragione di credere che, se anche a livello nazionale si fossero applicate regole di valutazione altrettanto rigorose, forse questo farmaco, per questa indicazione, non sarebbe stato inserito tra i farmaci rimborsabili.
Per concludere, è auspicabile che venga presto attivato anche a livello centrale un programma di TA, che si avvalga, valorizzandole e mettendole in rete, delle esperienze locali e/o regionali già esistenti. Personalmente non ritengo sia necessario istituire una nuova Agenzia Italiana di TA per i farmaci, penso piuttosto che l’AIFA e le Regioni dovrebbero coordinarsi per attivare un network AIFA-centri HTA, sul modello inglese NICE-HTA centres.
Le ordinanze dei giudici e la medicina delle prove
di efficacia
Si tratta di un problema che rischia di diventare il nuovo caso Di Bella con le ordinanze di alcuni giudici relativamente all’acquisto di un farmaco per la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).
L’ultimo punto della relazione riguarda un fatto molto spiacevole che sta accadendo nel nostro Paese, e che non succede in altri: si tratta del caso dell’IGF-1 e dell’IGF-BP3 nella SLA.
Sono state emesse a oggi 45 ordinanze da giudici che impongono alle ASL la fornitura di questi due farmaci a carico del SSN, con un provvedimento cautelare d’urgenza; viene utilizzato l’ex art. 700 del codice di procedura civile secondo il quale “quando c’è pericolo di ritardo in una decisione e la parvenza di un buon diritto da parte di chi fa richiesta – in questo caso il paziente – si può procedere con urgenza senza fare istruttorie”.
Il costo annuo per paziente del farmaco l’IGF-BP3, il farmaco di cui è stato imposto l’acquisto alle ASL, è di circa € 145.000 all’anno. Più recentemente si sta ipotizzando di raddoppiare il dosaggio; la spesa diventerà quindi di € 300.000 all’anno per ogni paziente.
Esaminiamo le evidenze scientifiche di questi due farmaci: IGF-1 è autorizzato dalla Food & Drug Administration per il trattamento del malaccrescimento nei bambini. In nessun Paese al mondo i due farmaci sono approvati per il trattamento della SLA.
Un primo studio condotto nel 1997 negli Stati Uniti (Lai EC et al. Neurology 1997; 49: 1621-30) ha evidenziato un rallentamento modesto nella SLA nei pazienti trattati, ma gli stessi autori concludevano auspicando ulteriori studi per definire gli effetti sulla sopravvivenza; un secondo studio condotto esattamente un anno dopo in Europa (Borasio GD et al. Neurology 1998; 51: 583-6) non ha invece dimostrato nessun beneficio significativo sulla progressione della malattia, rispetto al placebo.
Una revisione sistematica della Cochrane (Mitchell JD et al. Cochrane 2002; 51: 583-6) sostiene che a oggi non è possibile affermare che ci sia un’efficacia di questo trattamento e che è bene condurre altri studi; un gruppo importante di ricercatori, come quello del National Institute of Neurological Disorders and Stroke negli Stati Uniti, ha attivato uno studio controllato, ben disegnato, di fase III, che è tuttora in corso e si concluderà alla fine di questo anno. Purtroppo alcune anticipazioni sembrano confermare che non vi sono risultati favorevoli.
Per quanto riguarda poi il secondo farmaco, l’IGF-BP3, che le ASL devono comprare, su questo non ci sono nemmeno gli studi contrastanti dell’IGF-1. In questo caso non siamo in presenza di nessuna sperimentazione!
L’AIFA si è già espressa su questi due farmaci prendendo una posizione molto precisa, dopo aver convocato una commissione di illustri esperti e ha emanato un documento che conclude nel seguente modo: “non ci sono i presupposti per fornire questi farmaci a carico SSN, l’utilizzo non è supportato, esiti rilevanti come la sopravvivenza non sono mai stati indagati. Le attuali conoscenze scientifiche non giustificano un uso di questi prodotti al di fuori di una condizione di ricerca”.
Ma nonostante questo comunicato AIFA, i giudici continuano a ordinare alle ASL di acquistare questi farmaci; quasi tutti i tribunali, con l’unica eccezione del tribunale di Modena, hanno dato ragione ai richiedenti. Più precisamente: il tribunale di Modena aveva espresso parere negativo all’acquisto, il paziente ha cambiato residenza, è andato in un’altra regione, è stata rifatta la sentenza, è tornato a Modena e ora l’ASL di Modena deve acquistare il farmaco.
Sembra che l’esperienza del caso Di Bella ci abbia insegnato poco.
Per concludere
– È urgente attivare anche in Italia per i farmaci, ma anche per le altre tecnologie, per esempio i dispositivi medici, un programma di TA che sia rigoroso e valuti non solo l’efficacia dei nuovi farmaci, ma anche il loro reale valore aggiunto e il rapporto tra i costi e i benefici;
– la rimborsabilità deve essere garantita nel rispetto dei principi che regolano i Livelli essenziali di assistenza;
– le Regioni dovranno collaborare con l’AIFA alla costituzione di un network di TA;
– se il sistema diventa virtuoso: valutazione dell’efficacia, della reale innovatività, dei costi, analisi delle priorità, non deve peraltro poter essere scardinato da decisioni irrazionali assunte dai Tribunali, che non si basano su nessuna evidenza scientifica, prese in urgenza.

Spero che questi miei spunti possano essere ripresi dai relatori che mi seguiranno, perché sarebbe per tutti noi molto utile acquisire il loro parere. Grazie per l’attenzione.

Giovanna Scroccaro

Serafino Zucchelli
Sottosegretario Ministero della Salute

Si sta diffondendo una notevole sfiducia da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni, ma anche queste non hanno una gran fiducia tra loro.
Dobbiamo diventare più concreti e più capaci di realizzare e di affrontare la realtà.
Si ripete come una litania che l’articolo 32 della Costituzione fa i cittadini tutti uguali nei confronti della tutela della salute. Lo si dice, ci si compiace perché adesso sono i trent’anni del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), ne siamo orgogliosi; ma poi i cittadini del Sud sono diversi dai cittadini del Centro e dai cittadini del Nord, e i cittadini poveri sono diversi dai cittadini ricchi.
È inutile che noi andiamo a dire che il SSN è una grande conquista di civiltà, al povero che si ammala più frequentemente di chi ha mezzi, all’ignorante che si ammala più frequentemente di chi è più acculturato, o al cittadino del Centro-Sud che non ha in molti casi i livelli essenziali di assistenza. Ne è una prova la migrazione di quelli che prendono su la valigia e si fanno curare in Lombardia, in Veneto, in Emilia provenendo dalle regioni di origine.
Cosa accade oggi? Il SSN, che è veramente una conquista di civiltà, era completamente diverso venti o trent’anni fa da quello di oggi, ma non è una conquista di civiltà stabile, non è detto che possa durare per sempre.
Le società non si sviluppano soltanto, regrediscono anche, tornano indietro e non è detto che se non riusciamo a risolvere problemi in favore dei cittadini per la sopravvivenza del SSN questo si potrà mantenere nel tempo.
Ci sono delle forze neanche tanto oscure che aspettano soltanto che la mela diventi marcia e quando questo sistema nazionale non si reggerà più, perché non ci sarà un finanziamento adeguato, quando non soddisferà le esigenze dei cittadini, quando i poveri, gli ignoranti e gli abitanti del Centro-Sud saranno trascurati, non saranno il Veneto, l’Emilia, la Lombardia a difendere il servizio sanitario. Avremo degli spezzoni di servizio nelle varie Regioni senza significato.
Di fronte a questa realtà bisogna assumersi le responsabilità.
In questo ultimo anno il ministero della Salute ha preso tre iniziative, non riportate sui giornali:
– Il Finanziamento. Per fare vivere questo SSN ci vuole un finanziamento adeguato. La finanziaria dell’anno scorso ha previsto anche il finanziamento per il 2008 e il 2009 con una robusta iniezione di liquidità e soprattutto anche di prospettiva programmatica per le regioni e le aziende che così sanno che nei tre anni 2007-2008-2009 possono contare su consistenti risorse economiche. Abbiamo riguadagnato il 6,5% del prodotto interno lordo anche se ancora non siamo a livelli di sufficienza; abbiamo insistito per rifinanziare gli investimenti nel SSN, attraverso un sistema di finanziamento anche per obiettivi in quelle Regioni che hanno maggiori difficoltà in termini di dotazioni tecnologiche strumentali, per affrontare i problemi della diagnosi precoce oncologica e così via.
– Unitarietà del sistema. Il sistema non è unitario perché non dà a tutti nello stesso modo; le possibilità di accesso sono profondamente diverse. Ci sono 7 Regioni italiane in cui c’è un tale stato di difficoltà strutturale nella gestione dei bilanci che sono fuori dal circuito dell’autosufficienza; ci abitano più di 20 milioni di cittadini di questo Paese. Non sono solo Regioni del Sud: c’è anche la Liguria che si è faticosamente messa in piedi, il Lazio che non è certo secondario, con la capitale del nostro Paese. Nel 2001 vi è stata la modifica del titolo quinto della Costituzione, ma, visti i risultati che ha provocato nel SSN, forse sarebbe stato meglio non ci fosse stata. In via teorica era giusto avvicinare il luogo della spesa, il luogo delle decisioni alla capacità dei cittadini di controllare e di verificare, ma nelle Regioni del Centro-Sud le cose sono fortemente peggiorate, soprattutto al Sud, perché abbiamo avvicinato i centri di spesa ai luoghi in cui ci sono le clientele, il malaffare, per cui siamo in grave difficoltà. Noi abbiamo progressivamente ridotto il potere centrale e abbiamo rafforzato i poteri periferici, in certi punti con efficacia e in altri con risultati molto negativi. E allora abbiamo sostituito con una pratica clinica di ricerca del consenso quello che non era consentito dalle leggi, speriamo con una qualche efficacia. Ci siamo assunti la responsabilità di dire agli Italiani che vi sono 3 miliardi di debiti fino al 31 dicembre 2005 in cinque Regioni. Si è assunto un provvedimento di solidarietà nei confronti degli altri, seppure di una solidarietà condizionata basata sul concetto “se mi fai vedere, io ti do”, accettando di parzialmente commissariare queste Regioni e di condividere gli esiti del tentativo di rientro.
– Ammodernamento. Un’altra cosa che abbiamo predisposto, dopo amplissime discussioni con tutti i mondi professionali e con i mondi regionali, è un disegno di legge di ammodernamento SSN, in cui molte delle esigenze che sono state oggi espresse hanno avuto un tentativo di accoglienza cercando una soluzione condivisa. Tre sono le linee di tendenza su cui abbiamo ritenuto di dover intervenire: la prima, come diceva Carradori con molta sapienza, è che noi spendiamo nel campo della salute in gran parte per la cura, ma non ci si preoccupa troppo di non perdere la salute. Primo: nella prevenzione in Italia si dovrebbe spendere il 5% del fondo sanitario nazionale, si arriva a malapena al 2,5%. Il concetto nell’Unione Europea, in tutte le politiche del Paese, nella politica industriale, nella politica del clima, è di eliminare quelle scelte che provocano un peggioramento della salute e favorire invece quelle scelte che favoriscono un mantenimento della buona salute. Certamente costa meno che investire in terapia quando la salute è stata persa. Secondo: le aziende non hanno solo l’obbligo di dare prestazioni, devono anche tenere conto della loro qualità. Sembra dato per scontato che i professionisti, comunque, perseguano il massimo della qualità per spontanea tendenza professionale o per onestà, e lo fanno, ma le realtà sono profondamente complesse, sono profondamente articolate, il modo in cui viene organizzato il lavoro determina gli esiti. Anche con il miglior professionista inserito in una situazione che non solo non favorisce, ma ostacola il raggiungimento di determinati obiettivi di qualità, alla fine il risultato, l’outcome finale è sì una quantità enorme di prestazioni, ma di scarsa qualità. In Italia si producono il doppio delle prestazioni specialistiche che un Paese normale come il nostro dovrebbe dare ai propri cittadini. Ci sono così le liste di attesa e le aziende sono richiamate a produrre prestazioni specialistiche in numero ancora maggiore. Il punto invece è non il produrne di più, ma produrne di un’alta qualità per avere risultati positivi. Orbene noi vogliamo, e deve accadere, che ci sia un percorso diagnostico e terapeutico unitario, che ci sia una persona, un medico, un infermiere che prende il paziente per mano, dall’inizio alla fine. Però, bisogna rivoluzionare alcune cose, tipo la medicina del territorio per esempio, e così via. Abbiamo proposto una rivoluzione della medicina territoriale, del medico di famiglia, un cambiamento profondo della continuità assistenziale, un diverso tipo di rapporto con la specialistica, una revisione del rapporto tra sociale e sanitario, del ruolo degli enti locali che deve crescere. Abbiamo voluto rivisitare il concetto di azienda, più attenta alla qualità, facendo crescere il potere dei professionisti all’interno, potere inteso come responsabilità, attraverso un rapporto dialettico e meno subordinato nei confronti delle direzioni aziendali. Terzo: abbiamo cercato, nei limiti del possibile, di allontanare la cattiva politica dalla Sanità: la Sanità è l’80% degli investimenti e del bilancio delle Regioni. È lì la ragione del malaffare, amici, clientele, denaro, potere. Come li si affrontano? Aumentando le ragioni del merito e dando più potere alla meritocrazia nelle scelte, col criterio della trasparenza. Nella scelta del direttore generale e nella scelta degli apicali troverete un tentativo di correzione in questa direzione.

Prima di venire qui non pensavo di dire queste cose; mentre mettevo giù delle note, lo dicevo alla Presidente Scroccaro, ho visto che lei ha detto, con molta saggezza e dovizia di dati, quasi tutto quello che pensavo anch’io da medico. Ha fatto delle domande e ha chiesto delle risposte alle strutture pubbliche. A quasi tutte le domande risponderei di sì, tranne a una che mi sembra un po’ velleitaria: misurare il costo del farmaco rispetto alla sua efficacia, senza tener conto dei costi di produzione.
Non essendo un industriale non devo difendere assolutamente nessuno, ma credo che un farmaco vada pagato anche tenendo conto dei costi di produzione, perché se non è necessario non lo si paga né poco né molto, non lo si paga proprio, se non è necessario non lo si prescrive e non lo si ammette alla rimborsabilità. Ma se serve si paga.
Sicuramente, non possiamo abbandonare il concetto del tenere sotto controllo la spesa farmaceutica, perché questo non lo possiamo permettere, perché in certe parti del Paese la spesa farmaceutica fa parte di quel malaffare di cui parlavamo: anche quest’anno, se vedete i primi sei mesi di quest’anno, il contenimento della spesa farmaceutica ha conseguito qualche risultato.
Ma non è solo con questo grossolano criterio che noi possiamo governare questo settore, ci deve essere qualcosa non di quantitativo ma di selettivo, bisogna dire non solo “questo farmaco sì” e “questo farmaco no”, ma esercitare un rapporto diverso con l’industria farmaceutica di cui dobbiamo riconoscere la necessità di fare profitti per potere poi investire onesti profitti per fare la ricerca. Svolgere in sostanza un’opera di committenza che fino ad ora non abbiamo svolto.
Il SSN deve svolgere un’azione più attiva nei confronti dell’industria farmaceutica chiedendo: “abbiamo bisogno di questo, abbiamo bisogno di quell’altro, sviluppate la ricerca in un settore invece che in quell’altro”. Naturalmente attraverso degli incentivi e attraverso un rapporto e un colloquio che è assolutamente indispensabile, e a cui credo che l’industria farmaceutica possa e debba essere sensibile.
Per quanto riguarda poi il technology assessment, le Regioni più sveglie lo stanno facendo e qui non è questione di destra o di sinistra, l’Emilia è di sinistra, il Veneto è di destra, ma si stanno attrezzando. In Italia, la situazione è confusa perché c’è un gran pasticcio: c’è l’Istituto Superiore di Sanità che fa determinate cose, c’è l’Agenzia del farmaco che ne fa altre, ci sono l’Agenzia dei servizi sanitari regionali e le agenzie regionali che ne fanno altre ancora. Non c’è scritto da nessuna parte che debbano parlare tra di loro: ne derivano grandi spese, grande confusione, risultati poco efficaci. Allora nella legge di cui abbiamo parlato e abbiamo proposto c’è una richiesta di delega per la ristrutturazione dei grandi servizi centrali, l’agenzia, l’Istituto Superiore di Sanità, l’ISPES, l’AIFA e compagnia bella, ma introduce e anticipa fra le funzioni dell’AIFA quelle non di fare, ma di coordinare, assieme alle agenzie regionali e insieme al ministero il technology assessment e di svolgere tutte quelle funzioni che sono state dette.
Basta riflettere un pochino e avere voglia di risolvere problemi e vivendo da una parte e dall’altra alla fine i risultati sono sempre gli stessi.

Roberto Schiattarella
Docente di Politica Economica, Università di Camerino


Il compito che mi è stato assegnato è quello di approfondire sul piano economico alcuni tra gli elementi emersi nelle relazioni precedenti.
La prima considerazione è di carattere generale e riguarda l’esistenza stessa di un sistema sanitario nazionale. La scelta della tutela della salute attraverso l’impegno pubblico all’assistenza sanitaria è una scelta fatta dalle generazioni che ci hanno preceduto. Una scelta importante che tuttavia non può essere data per acquisita per sempre. Negli ultimi venti anni, alcuni Paesi si sono mossi in direzione di una crescente privatizzazione del sistema sanitario, anche sotto la spinta di interessi che fanno capo ai mercati finanziari. La rilevanza di questa scelta per le condizioni di vita di un Paese può essere testimoniata da quanto ci racconta il premio Nobel Amartya Sen in un suo recente libro1 attraverso un confronto tra l’evoluzione dei sistemi sanitari nei due grandi Paesi dell’Asia, la Cina e l’India, dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri.
Negli anni Cinquanta, sia in Cina che in India la speranza media di vita si aggirava intorno ai 45 anni. La Cina comunista ha impegnato sin dai primi anni Cinquanta ingenti risorse nella costruzione di un sistema sanitario pubblico. In India, viceversa, l’impegno è stato molto più blando. Alla fine degli anni Settanta la speranza di vita media di un cittadino cinese era nettamente aumentata, arrivando a 67 anni (quindi 22 anni in più in soli trent’anni) mentre in India l’aumento era stato molto più contenuto. Si era passati dai 45 ai 54 anni. Le riforme economiche avviate in Cina proprio alla fine degli anni Settanta hanno eliminato l’assicurazione sanitaria garantita e gratuita e hanno ripristinato un sistema di assicurazioni private. La mancanza di democrazia ha permesso che questo avvenisse senza resistenze evidenti da parte della società civile. È stata, invece, proprio la protesta che veniva dalla società a condizionare il sistema sanitario indiano e ha costretto la politica a impegnare più risorse e a curare l’efficienza del sistema stesso. I risultati di questo impegno in termini di aspettative di vita sono stati molto chiari. All’inizio del nuovo millennio2 la speranza di vita era aumentata in India di nove anni passando a 63 anni mentre in Cina, in cui il reddito peraltro era cresciuto molto di più, aveva raggiunto i 70 anni, con un aumento in venti anni di soli 3. Qualcuno osserverà che, una volta raggiunti certi livelli di speranza di vita, l’allungamento della stessa diventa più difficile. Argomentazione ragionevole che tuttavia, come fa rilevare Sen nel suo libro, non mette in discussione le conclusioni che si possono trarre. Il confronto con quanto è successo in altri Paesi asiatici può aiutarci. Ma anche se si resta al confronto tra India e Cina le indicazioni sono molto chiare. In una regione dell’India infatti, il Kerala, alla fine degli anni Settanta, la speranza di vita era analoga a quella cinese, cioè 67 anni. Nella stessa regione, all’inizio del Duemila, la speranza di vita era passata a 74 anni contro i 70 in Cina. E il discorso fatto per la speranza di vita potrebbe essere ripetuto anche per il tasso di mortalità infantile.
Per concludere su questo primo punto, conquiste come il sistema sanitario nazionale, proprio per gli effetti che generano, sono elementi essenziali di un progetto di convivenza civile. Sono conquiste che non esito a definire di civiltà, che vanno costantemente difese dalle spinte che vengono dagli interessi particolari.
Il secondo elemento di riflessione emerso dalle relazioni precedenti è quello del prezzo dei farmaci. Come professore di Politica Economica non posso certo definirmi un esperto di problemi di impresa. Ma il tema dell’innovazione, strettamente collegato a quello del prezzo dei farmaci, rientra nelle mie competenze. La fissazione del prezzo di un bene che è sostanzialmente innovativo è cosa complessa. Ci si trova di fronte, infatti, a quello che gli economisti chiamano un “fallimento del mercato”, cioè una situazione in cui il mercato di concorrenza non è in grado di fissare, attraverso il gioco della domanda e dell’offerta, il prezzo. Il problema deriva in molti casi dalla posizione sostanzialmente asimmetrica tra il venditore e il compratore nel mercato delle conoscenze. Supponiamo che un soggetto abbia acquisito una conoscenza che può avere un valore economico e la voglia vendere sul mercato. Chi vuol vendere, tuttavia, si trova di fronte a un problema. Se non racconta qualcosa del contenuto della sua conoscenza non metterà in grado il potenziale compratore di comprendere i vantaggi economici che potrebbero derivare dallo sfruttamento di quella conoscenza. Ma se la racconta, con ogni probabilità, annulla il valore della conoscenza stessa. Il compratore infatti, una volta conosciuto il contenuto di ciò che voleva comprare, non ha alcun interesse a pagare qualcosa che almeno in parte gli è stato già dato. Di qui il problema di fissazione del prezzo delle conoscenze. Le legislazioni sui brevetti sono nate proprio per tutelare questo tipo di situazioni e dunque per favorire l’investimento in innovazione attraverso la ricerca. Il problema sta nel fatto che non tutto ciò che si traduce in conoscenze può essere brevettabile, e soprattutto che nei settori in cui la ricerca gioca un ruolo importante il collegamento tra prezzo e costi di produzione per ciascun prodotto diviene estremamente labile.
Se si tiene poi conto del fatto che, nel caso che ci interessa, in presenza cioè di sistemi sanitari nazionali, il committente è un unico soggetto la cui natura pubblica lo rende particolarmente sensibile ai problemi della salute, si può capire perché per una parte importante dei prodotti si possa parlare di una domanda non sensibile ai prezzi, e, di conseguenza, di forte potere di mercato delle imprese farmaceutiche.
Questo forte potere di mercato poteva trovare una sua giustificazione in passato perché, traducendosi in alti profitti, poteva finire con l’essere il motore di nuovi investimenti e quindi di uno sviluppo più rapido dell’innovazione. Ma con lo sviluppo dei mercati finanziari, il  collegamento tra alti profitti e alti investimenti è diventato molto meno forte. I profitti che un’impresa realizza daranno luogo a investimenti tanto minori quanto più interessanti saranno le forme alternative di investimento. Corregge in parte quanto stiamo dicendo il fatto che ogni singola impresa ha in teoria un più facile accesso al mercato dei capitali, e dunque un accesso meno costoso alle risorse finanziarie.
Il terzo tema, che è anche quello più importante a mio avviso, è stato introdotto dalla relazione che mi ha preceduto nella quale si esprimeva una profonda insoddisfazione per la diffusione crescente nelle società moderne di un individualismo esasperato che esalta il fatto che ognuno debba pensare solo a se stesso. L’individualismo è certamente figlio anche della cultura del mercato. Una cultura che dà grandi motivazioni e quindi una forte spinta alla crescita economica, ma che produce anche effetti che possono non essere positivi. Avevamo parlato al primo punto del sistema sanitario. Ritorno ora sulla questione più generale del Welfare, dello stato sociale. In una logica di mercato, quale oggi la si intende, la scelta di rafforzare o mantenere lo stato sociale, insieme a quella di solidarietà che ne costituisce la base, viene considerata sostanzialmente come una scelta costosa. Anche se non sempre le posizioni sono esplicite al riguardo, la convinzione di gran lunga prevalente è che le politiche volte a migliorare il funzionamento del mercato siano anche quelle che, sia pure indirettamente, favoriscono la solidarietà. L’aumento della capacità di crescita garantita da un più efficiente funzionamento dei mercati è vista, infatti, come il modo migliore per assicurare la solidarietà, perché mette a disposizione della società maggiori risorse.
Le differenze tra destra e sinistra sono oggi minime per quel che riguarda l’analisi, molto maggiori per quel che riguarda viceversa l’atteggiamento rispetto ai problemi che si pongono. La sinistra finisce col rappresentare quella parte della società che è disposta a farsi carico, attraverso politiche pubbliche, di un certo livello di sacrifici in nome della solidarietà, mentre la destra rappresenta la parte della società meno sensibile alla questione dell’equità o, in ogni caso, quella non disposta a utilizzare strumenti autoritari di equità.
Sembra andata dispersa, in altre parole, la convinzione, tipica della cultura del riformismo del dopoguerra, che la solidarietà non debba essere considerata un costo ma un elemento essenziale di un progetto di società orientato a realizzare i valori di libertà e uguaglianza sostanziale. Così come si è indebolita l’idea che l’equità debba essere considerato un investimento che garantisce un miglior funzionamento del sistema economico sia perché assicura la coesione sociale sia perché tende a stabilizzare la componente più importante della domanda, i consumi che provengono dalle famiglie.
Voglio spiegare meglio questo ultimo punto. In ogni società, sono presenti elementi di rischio. Rischi attinenti le persone ma anche la condizione economica. Rischi che riguardano la salute, che riguardano i redditi, rischi accidentali e quant’altro. Un progetto di società è frutto anche di un’idea di ripartizione del rischio. Un esempio abbastanza chiaro di quanto stiamo dicendo ci può essere dato dalla questione della disoccupazione. L’andamento del ciclo economico, la presenza di capacità o competenze diverse fa sì che sul mercato possano determinarsi situazioni di disoccupazione. I soggetti che possono farsi carico di questa disoccupazione sono lo Stato, per esempio attraverso un congruo sussidio di disoccupazione, le imprese costrette a tenere la manodopera anche quando non gli è più necessaria, le famiglie nel caso in cui, viceversa, il licenziamento possa avvenire immediatamente. Un progetto di società è anche un modo per decidere chi, e in che misura, su quali soggetti devono gravare i costi della disoccupazione.
La tendenza negli ultimi anni è stata quella di spostare il rischio dalle imprese alle famiglie, visti i vincoli posti alla spesa pubblica dalla crisi fiscale dello Stato. Ma lo spostamento del rischio sulle famiglie mette le famiglie stesse in condizione di incertezza. Incide sulla loro capacità di progettare il futuro e quindi anche di spendere. Ma se le famiglie non spendono non cresce l’economia perché la domanda che proviene dalle famiglie è di gran lunga la componente più importante della domanda.
Quello che si vuol dire è che difendere i più deboli non solo è giusto, ma garantisce le condizioni di sviluppo di lungo periodo. Il problema è che per riuscire a far questo occorre una politica sufficientemente forte da impedire il prevalere degli interessi che hanno una maggiore capacità di imporre il proprio punto di vista.
Federico Caffè parlava di “umanesimo del Welfare”, intendendo sottolineare, con questa espressione, l’idea che il Welfare è espressione di una concezione della società. È in questi termini che si pone il problema della sua difesa. L’obiettivo di migliorarne costantemente l’efficienza è probabilmente la componente più importante di questa strategia di difesa. Ma questo obiettivo non può che essere perseguito se non con la consapevolezza che ridurre il problema dello stato sociale a una questione contabile non può che essere fuorviante, anche in una situazione di crisi della finanza pubblica.
Bibliografia
1. Sen A. La democrazia degli altri. Perché la democrazia non è un invenzione dell’occidente. Milano: Mondadori, 2004: 34 e segg.
2. World Bank. 2003 World Development Report. Washington D.C.: World Bank, 2003, tab. 2.20, 112-3.




Gianni Tognoni
Direttore Istituto Mario Negri Sud, S. Maria Imbaro (Chieti)


Premessa e quadro di riferimento
Chi sa mai se qualcuna/o vorrà un giorno riprendere in mano un vecchio progetto: “Raccontare la storia della SIFO, attraverso i percorsi di pensiero e di attività, suggeriti-narrati dai temi dei suoi Congressi”. È verosimile, certo auspicabile, che quello di questo anno 2007 potrebbe meritare un’attenzione particolare: per il coraggio (che forse è una pretesa) di proporre a una società scientifica una riflessione esplicita, certo non semplice, sull’articolazione di termini che certamente sono altrettanti snodi non solo del sistema sanitario nel quale si vive, ma, ancor più a fondo, rappresentano l’incrocio (spesso confuso, ancor più frequentemente contraddittorio) di decisioni e comportamenti che chiamano in causa contenuti e gerarchie di valori che interessano e determinano il significato stesso del rapporto tra i diritti individuali e quelli collettivi.
Mi è stato chiesto di contribuire, in questa sessione d’apertura a più voci, a esplorare questi incroci con lo sguardo di chi da sempre ha sviluppato il proprio cammino di ricerca in stretta interazione con la SIFO, come compagno di strada, e, da qualche tempo, un po’ più all’interno: come uno dei collaboratori del Centro Studi, che lungo gli anni sta cercando di sviluppare una strategia di ricerca dove i progetti che esplorano i diversi ambiti di interesse dei “farmacisti di salute pubblica” non sono solo protocolli operativi, ma cercano di essere anche un percorso che verifica se e quanto una società come la SIFO è in grado di produrre, attraverso le sue attività istituzionali e scientifiche, una cultura capace di porsi domande più generali sul “significato” del suo ruolo in un sistema sanitario sempre più complesso. I congressi sono un po’ l’occasione di fare il punto su questa ricerca-coscienza di senso.
Seguendo la stessa logica adottata nel Congresso di Genova, questa proposta di riflessione si articola in alcuni “punti di vista”, che corrispondono ad altrettante “immagini”, che vogliono più suggerire che dimostrare qualcosa: per invitare, ed essere obbligati, a ricercare ancora e meglio: riconoscendo, soprattutto quest’anno, che non ci sono mai risposte o soluzioni “già date” per la complessità degli incroci suggeriti dal titolo.
Il contesto
Immaginando, come si è più volte ripetuto, che il farmaco sia un indicatore fortemente rappresentativo dei contenuti e delle direzioni complessive della ricerca e delle pratiche con cui i termini del titolo del Congresso devono confrontarsi, i simboli della Tabella 1, e gli ambiti di interesse a essi associati, fotografano e raccontano la storia in cui siamo, a diverso titolo, coinvolti: invitati e sfidati, di volta in volta, a essere protagonisti e spettatori, sguardo critico e attivo o esecutori passivi o rassegnati, promotori di ricerca e di verifica attiva o funzionari che registrano ciò che succede. Una lettura complessiva dei diversi punti dello scenario che si propone (inevitabilmente sintetica, e perciò parziale, ma ragionevolmente fedele) potrebbe essere la seguente:
1. Viviamo un tempo che vede moltiplicarsi in modo esponenziale la capacità di descrivere con marcatori sempre più tecnologicamente sofisticati la complessità dell’universo della biologia.
2. A questa crescita della capacità descrittiva e dell’ipotesi di intervento corrisponde, ormai da anni, una sostanziale diminuzione di conoscenze che si traducono in innovazioni terapeutiche.
3. Le attese-promesse di risposte, che si esprimono in sperimentazioni cliniche di fase 1, 2, 3, con farmaci “classici”, o biologici-molecolari, o dispositivi, aumentano proporzionalmente.
4. Il risultato netto di questa situazione è quello di trovarsi, nei diversi ruoli in cui ci si trova a operare (dai CE alle mansioni di sorveglianza della spesa, o di monitoraggio di appropriatezza, o di informazione sulle “vere e false novità”), a gestire situazioni che ripropongono proposte o registrazioni ripetitive, problemi già affollati di risposte, e/o che richiedono una capacità discriminante molto attenta per identificare se e quanto le “innovazioni” possano o meno divenire rilevanti, al di là delle scelte “pesate” dell’una o dell’altra molecola, e trasferibili a (sotto)popolazioni con profili accettabili di beneficio-costo.
5. L’area oncologica sembra un modello privilegiato delle situazioni che chiedono strategie di ricerca epidemiologica che mettano in evidenza i bisogni inevasi e permettano di concentrare l’attenzione sugli “esiti” clinico-assistenziali dei nuovi interventi su popolazioni particolarmente a rischio. Per altri versi la gestione farmacologica delle demenze, per le quali si continuano a prescrivere trattamenti sostanzialmente inefficaci, è simmetrica-opposta all’oncologia. Un confronto serio con i termini proposti nel titolo del Congresso dovrebbe orientare a politiche decisionali che escludono farmaci, in favore di ricerche epidemiologiche assistenziali sugli “esiti” clinici, di autonomia di vita, di costi su popolazioni gestite con diverse strategie di supporto.
6. Giudizi di merito e scelte di comportamento rispetto all’ambiguità degli scenari sopra delineati si devono compiere tenendo conto dell’“atmosfera” culturale e politica nella quale si muove la Sanità: le affermazioni che la Salute Pubblica (SP) è sempre più essenziale per rispondere in modo adeguato alla sfida di combinare efficacia, economia, etica, sono all’ordine del giorno, ma è chiaro che, nelle pianificazioni reali, la SP tende ad avere progressivamente meno peso.



Salute Pubblica (SP) e Innovazione (I)
Il titolo e lo sviluppo della Tabella 2 rappresentano un approfondimento dello scenario tratteggiato nella Tabella 1, con una serie di esempi concreti, presi dal contesto politico-istituzionale italiano, e dalla letteratura internazionale. Le possibili relazioni tra SP e I rimandano a loro volta ai contenuti, e alla posta in gioco, dell’IGWGI (Inter Governmental Working Group on Innovation) dell’OMS che deve presentare per maggio 2008 all’Assemblea Generale della stessa OMS raccomandazioni specifiche su come, a livello globale, affrontare la dialettica, e l’apparente incompatibilità, tra politiche centrate su criteri di SP e le esigenze industriali di investimento-risorse per l’I.



Si tratta di fatto della stessa domanda, formulata in altri termini, del tema del Congresso. Le risposte possono variare in modo sostanziale, a seconda che ci si ponga nella posizione di I e SP (= I è il criterio di riferimento, SP deve adattarsi), o SP e I (= scenario simmetrico opposto), I per SP (= una capacità concordata e coraggiosa di sguardo complessivo al problema, con SP come criterio ultimo di riferimento).
Gli esempi non hanno bisogno di molti commenti:
1. Con il comma 2 della finanziaria, l’economia ha preso l’iniziativa, costringendo la SP a trovare aggiustamenti (adeguati?) per “proteggere” l’I. La risposta con il Tavolo Oncologico dell’AIFA (in cui la SIFO è direttamente coinvolta) esprime bene tutta la difficoltà, ma anche le provocazioni culturali, gestionali, di ricerca, che sono coinvolte.
2. Nell’oncologia, ma non solo, ci si deve confrontare ormai direttamente (e spesso in modo conflittuale, con decisioni apparentemente tecniche, ma che toccano a fondo criteri di valore) con l’insufficienza di misure di costo-efficacia finora apparentemente sufficienti (NNT), rispetto a misure di efficacia e giudizi di etica che si giocano su differenze di sopravvivenza calcolata su settimane-mesi (a costi “intollerabili”), e che pongono la domanda (che [non] ha soluzioni?) sulla coincidenza tra sopravvivenza e vita.
3. Dopo anni di letteratura scientifica, scoop, delusioni, promesse, referendum confusi tra (bassi livelli di) etica, economia, politica, le “terapie del futuro” (di cui cellule più o meno staminali sono il caso esemplare) continuano a essere discusse e proposte, senza che ci sia per nessuna patologia-popolazione candidata (dalla SLA, al Parkinson, alle terapie di difetti genetici, al cardiovascolare) neppure uno straccio di “epidemiologia dei bisogni, e dei diritti, reali”.
4. In campi più tradizionali, come il cardiovascolare, ma non solo, mentre tutti gli studi documentano che i farmaci esistenti sono in eccesso per controllare i rischi (dato che già prevalgono rispetto all’attenzione da dare agli stili di vita, e la bassissima compliance ai trattamenti cronici indica chiaramente che si ci trova di fronte a un problema non medico, ma culturale e socioeconomico), continua, in nome della parola magica della prevenzione, l’inseguimento a nuove molecole e loro combinazioni (con trial interrotti precocemente per eccesso di rischio, e non di benefici) (vedi i controlli “intensivi” di colesterolo e glicemia).
5. Se – come gli esempi appena riportati suggeriscono – l’attenzione a I (= procedure-tecnologie-strumenti “innovativi”) prevale, è difficile che SP (= popolazioni, individui, bisogni, diritti, che sono i soli possibili soggetti di etica) possa fungere da criterio di riferimento. Gli scenari “alternativi” evocati nel titolo pongono a pieno titolo interrogativi anche alla SIFO.
SIFO come attore protagonista in I per SP?
Non ci sono evidentemente risposte-già-pronte per l’uso. Come dice il sottotitolo, mai come oggi la politica (pretendendo di dare al termine il suo senso più antico, per quanto possa apparire obsoleto negli scenari attuali) di una società scientifica non può che coincidere:
– con una cultura-strategia di ricerca: fatta di tanti e diversi progetti, per avere radici concrete e senza illusioni nell’ambiguità complessa della realtà di cui sono delineate alcune caratteristiche nelle Tabelle 1 e 2;
– ma anche con una capacità di “investimento” di intelligenza, personale e collettiva, e di risorse, anche economiche.
Il breve pro-memoria proposto nei punti della Tabella 3 vuole sottolineare da una parte che non si tratta di inventare nulla: forse, questo sì, di prendere sul serio linee di lavoro che già ci sono, e che dovrebbero essere sviluppate come progetto complessivo, fortemente condiviso, per essere una provocazione propositiva soprattutto per le nuove generazioni, alle quali sono rivolti specificamente gli scenari della Tabella 3, come un invito a essere “innovative”, dis-continue rispetto a ciò che già esiste.



I suggerimenti del pro-memoria sono molto semplici, come è giusto siano i “titoli” di progetti di ricerca importanti-complessi, che esigono di mantenere l’attenzione sugli “end-point primari”, senza lasciarsi distrarre troppo dai dettagli delle procedure.
1. La scelta tra la logica del “descrivere” (indispensabile) e quella del ricordarsi il se, e il come, si va da qualche parte non è altro in fondo che l’antico ritornello che invita a non fermarsi al dito, quando c’è la luna.
2. è un po’ la sfida a sviluppare, nella direzione degli “esiti”, con una vera e propria “politica” culturale e pratica, il grande know-how e i tanti strumenti epidemiologici che si sono messi a punto lungo gli anni (frammentariamente per lo più, e sfruttando solo marginalmente la principale risorsa della SIFO che è quella di essere “rete”). La “nuova” area dell’oncologia (su cui tanto si è fatto, in una logica ancora troppo farmacocentrica) è un banco di prova, a partire dalle provocazioni di “ricerca” (di efficacia trasferibile, di economia, di etica) esplicitata anche dal TTO.
3. In tempi di ambiguità strutturale per quanto riguarda contenuti e utilizzazioni delle conoscenze (vedi Tabelle 1 e 2), la in-formazione non può limitarsi a essere esercizio-riproposizione di ciò che è già noto e disponibile nelle linee-guida, più o meno libere od occupate da conflitti di interessi. Possono i NR (= non responders = quelli che non coincidono con le raccomandazioni, le popolazioni escluse, non solo dai trial, ma dall’attenzione della ricerca, le maggioranze che vivono nelle confusa normale complessità del quotidiano assistenziale e della vita e non nelle serre delle ECM) essere oggetto di interesse e soggetti di una ricerca condivisa di risposte, per integrare (= rendere effective e cost-effective, non sostituire) quelle già esistenti?
4. I CE attendono farmacisti che dal loro ruolo critico di segreteria scientifica (= con grandi potenzialità, e insieme a forte rischio di interpretazioni burocratico-amministrative) contribuiscano (in rete, dialogando, senza chiudersi nelle tante singolarità aziendali) a farne strumenti di ricerca e non (tanto) di controllo (etico?).
5. Sarebbe bello se le “strane” percentuali con cui si conclude la Tabella 3 non risultassero un indovinello: sono, certo, un rimando a un vecchio sogno (che continua a prolungarsi, forse un po’ a singhiozzo, quasi a documentare la concreta difficoltà a divenire realtà, nelle pagine dell’Osservatorio internazionale del GIFC): quello di una SIFO cosciente di vivere in un mondo che non inizia o si conclude in Italia. Le percentuali sarebbero quelle – tristi, forse più correttamente, umilianti – che indicano la quota PIL che i Paesi ricchi sarebbero obbligati a dare per una cooperazione non di mercato. Le percentuali più basse sono quelle reali di Stati Uniti, Italia, …; quella più alta è quella dovuta secondo gli accordi internazionali. La compliance è molto bassa, di fatto un’eccezione, limitata ai Paesi Scandinavi. Chi sa mai – chi sa che il seminario coordinato da G. Ostino in questo Congresso possa essere non solo un descrittore, ma un indicatore? – che nell’agenda di ricerca-investimento (etica Æ economica) della SIFO, la serietà dell’attenzione per i bisogni inevasi del mondo possa tradursi anche nella concretezza di una percentuale di budget: equivarrebbe a dire che per la SIFO la logica I per SP è una possibilità-che-si-fa-reale.
Bibliografia
È un vecchio vizio di chi viene da una vecchia generazione: volersi sentire in compagnia nell’affermare cose che, una volta dette o scritte, lasciano il sapore di un “chi sa se poi ha senso tutto ciò”: e si ricordano allora i riferimenti che si ritengono indicatori rappresentativi delle tante strade che ci si trova a percorrere per non perdere di vista il cammino.



La bibliografia è molto mista (Tabella 4): come è necessario per un cammino che chiede di avere “occhi grandi” e “orecchie aperte sempre acerbe” (per richiamare titoli di nuovi e antichi racconti). Rimanda (su giornali rigorosamente professionali-tecnici) al mescolarsi delle variabili mediche e non; l’annuncio di futuri genomici si intreccia con la constatazione che per il nostro futuro di anziani si celebrano centenari di non-novità; invita a entrare con un romanzo in una “pittura”, dove si può ritrovare la chiave per comprendere fino in fondo i rapporti tra descrittori e di indicatori, I e SP; ci porta al cinema (siamo a Rimini con Fellini, ed è di queste parti Antonioni che se ne è andato quest’anno).
Per definizione (lo devono tener presente soprattutto le/i giovani il cui cammino è tutto da fare), le bibliografie non possono rimanere citazioni: sono strumenti. Devono essere usate, lette. Solo così se ne può verificare la coerenza con quanto si è detto fin qui: e sapere se ci si è riconosciute/i. Con tutta la diversità delle loro provenienze e dei loro linguaggi, faranno capire, meglio di qualsiasi ragionamento, che sui cammini riproposti da questo Congresso non c’è da illudersi, però neppure annoiarsi: se li si prendono sul serio.