Il farmacista e le responsabilità nell’ambito del rischio chimico e biologico


Maria Ernestina Faggiano1, Francesca De Plato2
1Comitato Unico di Redazione Editoria SIFO
2Coordinatore Area Rischio Chimico SIFO



Moderatori: Francesca De Plato, Stefano Federici
– Roberto Lombardi, La normativa di riferimento ed il rischio chimico e biologico
– Vanni Bascapé e Emanuela Omodeo Salè, Attività del farmacista e rischio chimico e biologico
– Camillo Falvo e Stefano Giovagnoni, Le responsabilità civili e penali del farmacista


Il rischio clinico e biologico rappresentano una materia misconosciuta e molto complessa, in cui il farmacista ospedaliero può dare ancora una volta un contributo fondamentale in quanto, non solo competente, ma anche “gestore” delle fonti di rischio quali detergenti, disinfettanti, sterilizzanti, antiblastici, anestetici per inalazione, conservanti/fissativi, solventi, acidi, gas compressi, gas criogenici, ulteriori categorie di farmaci (NIOSH), lattice e polvere di toner.
In apertura di sessione, lo ha sottolineato il Prof. Roberto Lombardi, funzionario del Dipartimento “Tecnologie di Sicurezza” dell’INAIL, specificando le Direttive europee recepite ed enunciando il Titolo IX, relativo agli agenti chimici, suddiviso in due capitoli (agenti chimici pericolosi ed agenti chimici mutageni e cancerogeni) e il Titolo X, relativo agli agenti biologici del DLgs 81/2008. Essenziale, “per essere sicuri” è non trascurare di considerare ogni sostanza dannosa e nociva, estendendo le misure di sicurezza a tutti i soggetti che frequentano a qualsiasi titolo il luogo in cui vengono adoperate (Titolo IX – Capo I-art. 221). L’articolo 222 Capo I- Titolo IX enuncia gli agenti chimici, che possono essere utilizzati, smaltiti, da soli, nei loro miscugli, allo stato naturale oppure ottenuti sinteticamente mettendo in evidenza che il valore limite di esposizione professionale, se non diversamente specificato, è quello della concentrazione media ponderata nel tempo di un agente chimico nell’aria, all’interno della zona di respirazione di un lavoratore, in relazione ad un determinato periodo di riferimento. Altre definizioni contenute nello stesso articolo 222 sono le seguenti:
• valore limite biologico: il limite della concentrazione del relativo agente, di un suo metabolita, o di un indicatore di effetto, nell’appropriato mezzo biologico;
• sorveglianza sanitaria: la valutazione dello stato di salute del singolo lavoratore in funzione dell’esposizione ad agenti chimici sul luogo di lavoro;
• pericolo: la proprietà intrinseca di un agente chimico di poter produrre effetti nocivi;
• rischio: la probabilità che si raggiunga il potenziale nocivo nelle condizioni di utilizzazione o esposizione.

Di notevole importanza sono anche gli articoli 224 e 225; il primo tratta “Misure e principi generali per la prevenzione dei rischi”, recitando:
1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 15, devono essere eliminati i rischi derivanti da agenti chimici pericolosi devono essere eliminati o ridotti al minimo mediante le seguenti misure:
   a) progettazione e organizzazione dei sistemi di lavorazione sul luogo di lavoro;
   b) fornitura di attrezzature idonee per il lavoro specifico e relative procedure di manutenzione adeguate;
   c) riduzione al minimo del numero di lavoratori che sono o potrebbero essere esposti;
   d) riduzione al minimo della durata e dell’intensità dell’esposizione;
   e) misure igieniche adeguate;
   f) riduzione al minimo della quantità di agenti presenti sul luogo di lavoro in funzione delle necessità della lavorazione;
   g) metodi di lavoro appropriati comprese le disposizioni che garantiscono la sicurezza nella manipolazione, nell’immagazzinamento e nel trasporto sul luogo di lavoro di agenti chimici pericolosi nonché dei rifiuti che contengono detti agenti chimici.

Il secondo tratta “Misure specifiche di protezione e di prevenzione”, così recitando:
1. Il datore di lavoro, sulla base dell’attività e della valutazione dei rischi di cui all’articolo 223, provvede affinché il rischio sia eliminato o ridotto mediante la sostituzione, qualora la natura dell’attività lo consenta, con altri agenti o processi che, nelle condizioni di uso, non sono o sono meno pericolosi per la salute dei lavoratori. Quando la natura dell’attività non consente di eliminare il rischio attraverso la sostituzione il datore di lavoro garantisce che il rischio sia ridotto mediante l’applicazione delle seguenti misure da adottarsi nel seguente ordine di priorità:
   a) progettazione di appropriati processi lavorativi e controlli tecnici, nonché uso di attrezzature e materiali adeguati;
   b) appropriate misure organizzative e di protezione collettive alla fonte del rischio;
   c) misure di protezione individuali, compresi i dispositivi di protezione individuali, qualora non si riesca a prevenire con altri mezzi l’esposizione;
   d) sorveglianza sanitaria dei lavoratori a norma degli articoli 229 e 230.

Esempio tipico del rischio è quello dei gas anestetici, quale il protossido d’azoto (N2O), perché presentano una maggiore tossicità rispetto ai liquidi volatili anestetici (ad esempio sevoflurano, desflurano, ecc.); sarebbe opportuno evitarne, per quanto possibile, l’utilizzo e considerare l’assenza di impianti di erogazione di questo gas, ad eccezione di particolari esigenze nell’ambito di tecniche chirurgiche e/o anestesiologiche.
Nell’ambito della vigente Legislazione, esiste soltanto la Circolare del Ministero della Sanità n. 5 del 14 marzo 1989, che regola i valori di riferimento del protossido di azoto e corrispondono ai seguenti limiti tecnici (“..se si seguono norme di buona tecnica e adeguati controlli della organizzazione del lavoro”):
• N2O = 100 ppm (T.L.V. T.W.A.) per le sale operatorie costruite prima del 1989;
• N2O = 50 ppm (T.L.V. T.W.A.) per le sale operatorie ristrutturate dopo il 1989.

Nell’esposizione ad anestetici alogenati, la suddetta circolare si limita a “raccomandare” un limite di 2 ppm, quale valore Ceiling per l’insieme degli anestetici alogenati.
Nella stessa circolare si riportano le raccomandazioni del N.I.O.S.H. (National Institute for Occupational Safety and Health) statunitense (1976) in merito ad alcuni valori di concentrazione di agenti anestetici che potrebbero essere considerati alla stregua di una ottimizzazione dei requisiti di qualità, ovvero:
• N2O = 25 ppm per le sale di chirurgia generale;
• N2O = 50 ppm per le sale dentistiche;
• insieme di anestetici alogenati = 2 ppm, valore “ceiling”, riferendosi a prodotti attualmente non più utilizzati, ovvero alotano (fluotano) ed enflurano (etrano).

Fra gli anestetici inalatori maggiormente impiegati nella pratica clinica attuale vi sono Sevoflurano e Desflurano per i quali non è stato ancora delineato un completo profilo tossicologico, né di conseguenza definiti i valori “limite di esposizione”. Poiché, comunque, nelle misure di prevenzione è opportuno adottare il principio ALARA (As Low As Reasonably Achivable), cioè che l’esposizione professionale a prodotti chimici pericolosi sia mantenuta entro i livelli più bassi possibili, a scopo cautelativo, per quanto attiene ai liquidi volatili anestetici di nuova generazione (es. Sevoflurano e Desflurano), i valori di concentrazione ambientale devono essere contenuti entro i livelli più bassi possibili.
Un altro argomento di attuale rilievo, nell’ambito dei fattori di rischio inerenti l’impiego del farmaco, è costituito dalla preparazione e somministrazione dei farmaci antiblastici.
Al riguardo la legislazione di riferimento è sempre il D.Lgs. 81/08, con particolare riferimento a quanto riportato al Titolo IX “Sostanze Pericolose”.
La preparazione di farmaci antiblastici deve essere effettuata in un ambiente, denominato UFA (Unità Farmaci Antiblastici), possibilmente centralizzato, appositamente dedicato ed in depressione. L’accesso a tale ambiente, consentito solo al personale autorizzato, avviene mediante “zona filtro”.
L’UFA è dotato di un sistema di ventilazione e condizionamento in grado di abbattere quanto più possibile la concentrazione in aria dei predetti composti, i.e. almeno 6 ricambi di aria primaria ogni ora.
Gli interventi di prevenzione-protezione di tipo collettivo per antiblastici sono:
• Esecuzione della preparazione sotto cappa a flusso laminare verticale, la quale, nell’ambito della Unione Europea, deve essere realizzata ed installata in conformità alla norma tecnica DIN 12980 (copia della certificazione rilasciata al produttore), così da consentire un’appropriata tutela del personale. La cappa a flusso laminare verticale richiede una manutenzione-verifica dell’efficienza, in rispondenza di quanto previsto dalla stessa norma (negli Stati Uniti è utilizzata la norma NSF Standard 49 dell’Organismo Federale di certificazione - National Sanitation Foundation, che utilizza requisiti tecnici pressoché identici);
• In caso di impossibilità materiale e documentata da parte della struttura a realizzare un UFA, o nel caso di tempi lunghi per renderla disponibile, in sostituzione della cappa a flusso laminare e quale possibile sistema di sicurezza alternativo, si può impiegare un’apparecchiatura denominata isolatore, caratterizzata da specifici requisiti di tutela per l’operatore e per l’ambiente di lavoro;
• Utilizzare sistemi definibili “chiusi” per il trasferimento dei farmaci (in preparazione e somministrazione);
• Nel caso in cui la struttura sia nell’impossibilità materiale, documentata, di poter destinare un’area idonea per la realizzazione dell’UFA, è possibile impiegare un “laboratorio modulare-shelterizzato“, che è in grado di garantire i medesimi requisiti tecnologici e funzionali di prevenzione/protezione e che, tra l’altro, successivamente potrebbe essere destinato anche ad utilizzo di tipo diverso. Il laboratorio è considerato appropriato se un organismo nazionale competente in materia lo avrà qualificato come insieme di misure di sicurezza conformi a quanto disposto dalla vigente legislazione, i.e. D.Lgs 81/2008 - D.Lgs 106/2009 e s.m.i.;
• Ridurre, per quanto tecnicamente possibile, lo spandimento accidentale. Al riguardo, sono disponibili sistemi infusionali costituiti da deflussori a più vie con regolatori di flusso, valvole unidirezionali antireflusso. Questi dispositivi di sicurezza facilitano l’immissione del farmaco (o dei farmaci), evitando una situazione di “blocco” del sistema infusionale con conseguente attivazione di manovre che potrebbero provocare la dispersione accidentale del preparato.

Gli interventi di prevenzione-protezione di tipo individuale per antiblastici sono:
• I guanti di protezione, che devono essere classificati come DPI, possedere la marcatura CE in ottemperanza alle norme tecniche EN 420 - EN 374 relative ai criteri di base per i guanti di protezione, nonché alla protezione da agenti chimici. Tali dispositivi devono essere provvisti di copia di una documentazione tecnica, rilasciata da un Organismo Notificato a corredo del dispositivo fornito dal fabbricante, al fine di attestarne l’adeguatezza rispetto ai rischi di esposizione individuati;
• Gli indumenti di protezione, che devono essere classificati quali DPI e possedere la marcatura CE in ottemperanza alle norme tecniche di tipo generale e specifico, necessarie a garantire la protezione da agenti chimici, quali la UNI EN 17491 – 4: 2008, la UNI EN 14605:2005, la UNI EN 14325:2005, la EN ISO 13982-1/2:2005 (nel caso di una tuta) ed essere classificati in categoria III (ai sensi della direttiva 686/89 CE - D. Lgs 475 del 4/12/92).
• I dispositivi di protezione delle vie respiratorie, che devono essere utilizzati quando si effettua una preparazione all’interno di un ambiente che presenta un insufficiente numero di ricambi d’aria o in situazione di malfunzionamento della cappa a flusso laminare e/o in ulteriori circostanze di esposizione a rischi per le vie aeree dell’operatore. In questi casi, è opportuno che l’operatore sanitario utilizzi una semimaschera con filtro antipolvere o un facciale filtrante antipolvere, ambedue con caratteristiche prestazionali appropriate. I dispositivi di protezione delle vie respiratorie devono possedere la marcatura CE ovvero, per quanto concerne la semimaschera (cioè la struttura portante del dispositivo di protezione respiratoria), in ottemperanza alle norme tecniche EN 140, per il/i filtro/i antipolvere da impiegare con la semimaschera EN 143 e, per quanto riguarda i facciali filtranti antipolvere, EN 149.

Il Prof. Lombardi ha, poi, approfondito il tema del rischio biologico in ambiente di lavoro, identificandolo con la determinazione del rischio di esposizione ad agenti biologici e con la conseguente strategia di prevenzione che richiede specifiche misure di protezione previste dagli adempimenti del Titolo X del D.Lgs. 81/2008. La caratterizzazione di tali interventi si considera di particolare interesse per il contenuto estremamente innovativo dell’attuale normativa focalizzata sulla necessità di garantire una adeguata ed efficace tutela del personale ogni volta sia identificabile una potenziale esposizione ad agenti che possono provocare un danno alla salute. Definire e caratterizzare le misure di sicurezza è di importanza fondamentale nelle strutture ove si identifica il rischio biologico nell’ambito dell’attività lavorativa. Tale atto è strettamente dipendente dal procedimento di valutazione del rischio.
Ai sensi dell’art. 271 del Titolo X (D.Lgs. 81/2008) è, infatti, necessario evidenziare per ogni luogo o ambiente di lavoro se esiste o meno “rischio di esposizione” ad agenti biologici e quali siano le misure tecniche, organizzative procedurali (art. 272 del Titolo X) attuate o da dovere attuare per evitare l’esposizione individuando e definendo i necessari interventi di protezione. La procedura di disinfezione è, nel caso del rischi biologico, un intervento di prevenzione e protezione di tipo collettivo. Si devono impiegare sostanze, composti, formulazioni che possiedono l’attività richiesta considerando anche i necessari tempi di contatto, i diversi substrati ed i possibili mezzi interferenti nei quali siano presenti gli agenti infettivi poiché le proprietà microbicide dei preparati potrebbero essere insufficienti, annullate o fortemente ridotte (ad es. in alcuni casi sono del tutto inefficaci clorexidina, ammonici quaternari, iodofori, etc., in particolare per il limitato spettro d’azione e gli insufficienti tempi di contatto). Contemporaneamente, è doveroso porre altrettanta oculatezza nella scelta di questi composti valutando anche le caratteristiche di tossicità per i soggetti esposti in relazione alle concentrazioni di impiego (ad es. formaldeide, gliossale, gluteraldeide, etc…).La norma di riferimento di un agente disinfettante è regolamentata anche dalla norma inerente i Dispositivi Medici (D.lgs 49/1997 - attuazione Direttiva 93/42/CE e Direttiva 2007/47/CE e s.m.i.) e va rispettata per non incorrere in situazioni di “irresponsabilità” da parte del farmacista ospedaliero.
Gas medicinali e gas anestetici rappresentano senz’altro una fonte “rischiosa” ed è per questo che Vanni Bascapè, Coordinatore dell’area scientifica SIFO “Gas medicali”, dopo un excursus riepilogativo sulla classificazione e le caratteristiche di ciascun gas medicale, riferendosi al Decreto Legislativo 219/2006, che così li definisce: “ogni medicinale costituito da una o più sostanze attive gassose miscelate o meno ad eccipienti gassosi” (obbligo dell’ AIC), ha descritto le caratteristiche “rischiose”, come l’infiammabilità, il potere ossidante, la tossicità e l’asfissia (caratteristiche intrinseche). I gas utilizzati in ospedale non sono infiammabili, ma sono largamente utilizzati per il riscaldamento domestico o per i mezzi di trasporto. Inoltre, il concetto di infiammabilità è strettamente collegato a quello di potere comburente. Le precauzioni da adottare quando si è in presenza di gas combustibili sono:
• Evitare le perdite;
• Tenere a disposizione estintori idonei alla natura del materiale combustibile;
• Non fumare, non usare fiamme libere, non provocare scintille, ad esempio impiegando utensili inadeguati;
• Utilizzare solo gli appositi spray per la ricerca di perdite, o soluzioni acquose saponate;
• Non stoccare gas combustibili con comburenti.

Il potere ossidante è legato ai gas ossidanti o comburenti che alimentano, cioè la combustione dei prodotti infiammabili. La combustione può rapidamente, in adeguate condizioni, degenerare in esplosione. I più comuni gas ossidanti sono ossigeno e protossido d’azoto, sebbene altri gas, come il fluoro, è estremamente ossidante, potendo reagire con qualunque altro elemento.
Molta cura deve essere prestata nella scelta dei materiali nell’uso di gas ossidanti, ai fini di evitare ogni possibile miscelazione con gas combustibili.
La principale precauzione da adottare nell’impiego di gas comburenti, in particolare l’ossigeno, è quella di eliminare il rischio di sovraossigenazione dell’ambiente o il rischio di incendio in ambiente già sovraossigenato. Materiali che bruciano in aria, bruciano violentemente in ossigeno puro. Molti materiali che normalmente non bruciano in aria bruciano in ossigeno puro o in ambiente anche solo parzialmente sovraossigenato, come legno o indumenti sintetici. Questa condizione si può verificare anche a “livello locale”, esempio tipico è la mascherina di un paziente in ossigeno-terapia, che si trova, quindi, in una zona ad altissima sovra ossigenazione, che utilizza creme grasse, che possono provocare ustioni sul viso. Un altro ambiente ad alto rischio è la camera iperbarica, un ambiente chiuso ad alto rischio di sovraossigenazione: se si verifica un innesco, i combustibili solidi presenti all’interno della camera iperbarica bruciano sviluppando calore. Trovandosi in un ambiente chiuso, il calore sviluppato dalla combustione provoca nella camera un aumento di temperatura che auto alimenta il processo. L’aumento di concentrazione di ossigeno aumenta, inoltre, la velocità di combustione: sopra al 25%, in condizioni non controllate, le conseguenze possono essere drammatiche. Tutti gli incidenti che hanno avuto luogo in camere iperbariche con concentrazioni di ossigeno sopra al 28% non registrano superstiti.
In generale, le misure di prevenzione da adottare quando si impiegano gas comburenti sono:
• non fumare, non usare fiamme libere, non provocare scintille,
• non stoccare gas comburenti con materie combustibili,
• usare indumenti in tessuto ignifugo,
• evitare assolutamente il contatto tra ossigeno e materie combustibili come olii, grassi, guanti da lavoro sporchi e così via,
• seguire sempre le indicazioni riportate nei manuali dei dispositivi per la somministrazione del gas e controllare frequentemente l’efficienza dei sistemi di sicurezza, come avvisatori ottici e acustici e sistemi antincendio,
• nel caso non si riesca a collegare della strumentazione alla bombola di ossigeno NON bisogna mai manomettere i dispositivi, come, per esempio, scaldare tubi in plastica con l’accendino per allargarli o altre pericolose iniziative del genere. I dispositivi difettosi vanno immediatamente sostituiti.

Approfondendo gli argomenti della relazione, non poteva mancare quello sull’ossigeno.
L’ossigeno è incolore, inodore e insapore e, pertanto, l’arricchimento in atmosfera non può essere percepito dai sensi umani. L’ossigeno è considerato un gas “buono” perché è quello che respiriamo quindi spesso si è poco sensibili ai rischi. Pensiamo per esempio al rischio che corre un paziente che fumi una sigaretta durante l’ossigenoterapia domiciliare o ancor peggio uno scaldino per le mani durante l’ossigenoterapia iperbarica. Ricordiamo infatti che l’aumento di concentrazione di ossigeno, anche solo localmente, corrisponde ad un aumento del suo potere ossidante e di conseguenza si riduce o in alcuni casi si azzera l’energia necessaria per attivare le reazioni di combustione materiali potenzialmente infiammabili come creme, plastica, carta, vernici e così via. L’eccesso di ossigeno in aria stratifica verso il basso, è quindi necessario controllare spesso cunicoli o locali interrati a rischio di sovra ossigenazione. Le precauzioni da adottare nell’uso di ossigeno, che valgono per qualunque gas comburente, sono: controllare connessioni, flange e raccordi degli impianti o recipienti di ossigeno, e ventilare costantemente le aree a rischio. È consigliabile fare un test di ricerca delle perdite per ogni connessione in caso di situazioni sospette e quando i dispositivi presentano segni di degrado. Non bisogna mai utilizzare l’ossigeno in pressione in sostituzione dell’aria compressa, per esempio, per azionare strumenti chirurgici, pulire macchinari o vestiti, gonfiare pneumatici. In quest’ultimo caso, l’attrito con il suolo provocherebbe rapidamente la combustione della gomma: l’aria è costituita da circa il 21% di ossigeno, e, perciò, utilizzare l’ossigeno puro significa portare localmente la concentrazione dell’ossigeno stesso vicino al 100%, con il rischio di attivare reazioni di combustione inaspettate, anche in ambienti non chiusi. Caso limite è quello del cannello ossidrico e ossiacetilenico impiegato per le saldature, in cui le temperature molto alte, ottenute quasi all’istante, sono assicurate dall’atmosfera creatasi nel cannello, a ossigeno puro.
Anche il cotone, considerato un prodotto non facilmente infiammabile in aria, in atmosfera sovraossigenata può prendere fuoco molto rapidamente. I prelievi di ossigeno liquido creano una densa nuvola di ossigeno gassoso. Presso gli stabilimenti di riempimento di serbatoi di ossigeno, dove le ingenti perdite di gas possono impregnare le fibre del cotone, gli operai sono fortemente sensibilizzati sui possibili rischi. Gli incidenti tipici registrati negli stabilimenti sono indumenti che prendono fuoco a causa dell’accensione di un sigaretta subito dopo aver completato l’attività di riempimento di serbatoi. In questi casi è necessario ventilare i vestiti all’aria per almeno 15 minuti prima di fumare o esporsi ad altre possibili fonti di ignizione.
Un altro esempio di gas comburente è il protossido di azoto, spesso confuso con un gas inerte, sottovalutandone così i rischi. Alle condizioni normali il protossido di azoto è un gas incolore, non irritante e inodore, relativamente stabile e poco reattivo.
Per il maggior peso specifico rispetto all’aria, in caso di dispersioni, le concentrazioni del gas sono più elevate nei livelli più bassi dei locali insufficientemente aerati pertanto i controlli del tenore del protossido di azoto devono essere fatti vicino al suolo.
I rischi nell’impiego di protossido di azoto sono connessi alla sua presenza nell’ambiente in concentrazioni superiori a determinati valori per due principali motivi: si possono creare atmosfere sottoossigenate e, quindi, irrespirabili, essendo inodore, chi si trova nell’ambiente non percepisce il pericolo ed essendo, ad alte concentrazioni, un gas ad azione esilarante, tende a inibire tale capacità di valutazione; altro rischio è connesso all’aumento della concentrazione di protossido di azoto in aria con la creazione atmosfere comburenti che possono attivare i processi di combustione.
Molti tra gli operatori sanitari, afferma la dottoressa Emanuela Omodeo Salè, sono coinvolti nella manipolazione, somministrazione e smaltimento degli antiblastici, definiti ad alto rischio a causa della loro potenziale tossicità, del basso indice terapeutico e dell’alta possibilità di interazioni. Pertanto, è necessario tener conto dell’esposizione professionale del personale addetto alla fornitura, al trasporto, all’allestimento, alla somministrazione e allo smaltimento dei rifiuti.
Nonostante numerosi chemioterapici antiblastici siano stati riconosciuti dalla IARC e da altre autorevoli agenzie internazionali come sostanze cancerogene o probabilmente cancerogene per l’uomo, ad essi non si applicano le norme del Titolo VII del D.Lgs. 626/94 “Protezione da agenti cancerogeni”. Non è loro attribuibile la menzione R45 “Può provocare il cancro” o la menzione R49 “Può provocare il cancro per inalazione”. Su segnalazione dell’ISPESL, nel dicembre del 1995, la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale ha raccomandato l’inclusione nell’allegato VIII del D.Lgs. 626/94 delle attività di preparazione, impiego e smaltimento di farmaci antiblastici ai fini del trattamento terapeutico“. Il Provvedimento Agosto 1999 ha emanato il Documento di Linee Guida per la sicurezza e la salute dei lavoratori esposti a chemioterapici antiblastici in ambiente sanitario e, poi, il D.Lgs. n. 626/94 è stato completamente trasfuso nel cosiddetto Testo Unico Sicurezza Lavoro (D.Lgs. 81/2008), a sua volta successivamente integrato dal D.lgs. n. 106 del 3 agosto 2009 recante disposizioni integrative e correttive. Certo è che in un contesto professionale a rischio, come quello ospedaliero la SORVEGLIANZA SANITARIA è eticamente necessaria per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. Di ciò si occupa la Medicina del Lavoro identificando i rischi professionali di natura fisica, chimica e organizzativa nell’ambiente di lavoro allo scopo di controllarli e prevenirne gli effetti. L’Art. 16 della Legge 626/94 (Contenuto della sorveglianza sanitaria) dà informazioni precise circa la sorveglianza sanitaria che è effettuata nei casi previsti dalla normativa vigente dal medico competente e comprende:
a) accertamenti preventivi intesi a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati, ai fini della valutazione della loro idoneità alla mansione specifica;
b) accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica.

Nel riprendere le due Raccomandazioni Ministeriali, numero 7 e numero 14, la prima sui farmaci ad alto rischio, in cui si fa riferimento a Centralizzazione, Standardizzazione dell’allestimento, Norme di Buona Preparazione degli antiblastici, e la seconda sulla prevenzione degli errori in terapia con farmaci antineoplastici, la dottoressa Omodeo Salè ribadisce l’importanza della prevenzione del rischio da attuare attraverso la centralizzazione delle attività, le caratteristiche appropriate dei locali di preparazione, l’adeguatezza dei dispositivi medici e dei Dispositivi di protezione collettiva ed individuale e i comportamenti di sicurezza degli operatori, esplicabili con momenti di istruzione-informazione-formazione-aggiornamento. Centralizzare la preparazione degli antiblastici vuol dire: attuare una prevenzione individuale e collettiva in tema di rischio da esposizione a chemioterapici, migliorare la gestione degli stock di magazzino e dei residui di preparazione, con l’impiego di flaconi multidose con conseguente risparmio economico, rispettare gli Standard di Qualità come richiesto dalle normative vigenti.
Il farmacista ospedaliero con le operazioni di diluizione e ricostituzione dei chemioterapici antiblastici produce galenici magistrali e, pertanto, deve rispettare le Norme di Buona Preparazione dei medicinali in un percorso di qualità garantendo la tracciabilità del farmaco, del preparatore e la standardizzazione di tutto il processo. L’adeguatezza delle risorse strutturali, strumentali, umane, organizzative e gestionali alla tipologia e al carico di lavoro svolto dalla Farmacia, l’identificazione delle responsabilità, la qualità delle materie prime, il controllo costante e documentato sulle fasi di lavoro, la manutenzione, calibrazione e aggiornamento della strumentazione e l’aggiornamento continuo e specifico del personale riducono i rischi per pazienti e operatori. L’automazione nei processi di allestimento, inoltre, assicura:
• Accuratezza dosaggio (Sistema di dosaggio volumetrico e sistema di verifica gravimetrica di ogni fase dell’allestimento)
• Verifica quali/quantitativa sul 100% dei preparati
• Identificazione preparati e pazienti tramite utilizzo di codici a barre
• Tracciabilità di ogni singola operazione
• Identificazione di farmaci e materiali con sistema di visione e sensori dedicati e relativo controllo gravimetrico
• Flusso informatizzato e condivisione delle informazione
• Ottimizzazione utilizzo dei farmaci
• Certificazione dei prodotti e dei processi
• Ambiente a controllo microbiologico
• Doppio sistema di filtrazione aria tramite filtri HEPA
• Nessuna contaminazione ambientale.