Invito al cinema

Daniela Scala
AORN A. Cardarelli, Napoli
sdaniela2000@yahoo.com

Premessa
(tratta da “Medical humanities e medicina narrativa. Nuove prospettive nella formazione dei professionisti della cura” di Lucia Zannini; Raffaello Cortina Editori; 2008)

Il cinema è in grado  di sollecitare potentemente sia sul piano cognitivo, che su quello emotivo. Permette di fare esperienza di una realtà che non appartiene direttamente allo spettatore ma che ciononostante, può risultare estremamente significativa. Usare il film significa, a  livello generale, aiutare gli spettatori a fare ricorso a forme di pensiero e registri, come quello notturno, emozionale, affettivo e simbolico, spesso misconosciuti nei processi di costruzione della conoscenza, specialmente nei contesti sanitari. Il cinema, l’arte, e più in generale le Medical Humanities devono concorrere alla formazione del medico  in quanto discipline che vanno a colmare le lacune di un curriculum tutto orientato al tecnicismo, all’onnipotenza della scienza medica. Al contempo, servirsi del cinema nella formazione dei professionisti della cura significa far vivere a loro esperienze che non  li riguardano direttamente, in primis quella del malato, ma non solo, anche quella dei familiari, di modo che abbiano l’opportunità di cogliere da altre prospettive la realtà in cui sono immersi. Inoltre, il cinema permette di avere la visione di alcuni problemi così come una società ed una cultura li percepiscono, non ultima la rappresentazione del medico, dell’infermiere, ecc, prospettiva, questa, che a volte è difficile da cogliere quando si è completamente immersi nel contesto sanitario. E queste attività di decentramento, vedere l’esperienza di malattia con gli occhi del malato, capire come una società si rappresenta la figura del medico o la questione delle terapie farmacologiche, rappresentano una finalità cruciale delle Medical Humanities.
Rispetto alla figura del medico, nelle società occidentali appare molto interessante il lavoro di Flores (G. Flores. Mad scientists, compassionate healers, and greedy egotists: the portrayal of physicians in the movies. J Nat. Med. Ass. 2002) che ha analizzato 131 film scoprendo che la maggior parte dei medici rappresentati nei film sono maschi, bianchi e di età inferiore ai 40 anni. Si tratta principalmente di chirurghi, di psichiatri o di medici di medicina generale. Nel 44% dei film tali medici sono figure negative, perché egoisti, incapaci della presa in carico del paziente con comportamenti non etici, specialmente nelle pellicole più recenti. Un tema ricorrente è quello del medico come scienziato pazzo, maggiormente interessato alla ricerca che alla sicurezza del paziente. Questo non significa che i medici siano realmente così, ma questa è l’immagine che di essi ha la società occidentale, della quale non possono non tenere conto.
Presso la Southeastern University  in Florida all’interno del corso di fisiologia viene utilizzata l’immagine di Sylvester Stallone per illustrare l’effetto del danno del nervo facciale, oppure il film Where the heart is è utilizzato per passare dall’anatomia del polmone alla fisiologia della mediastinite ed illustrare il concetto di airflow resistance.  Oltre che per accentuare alcuni messaggi, lo spezzone del film, o addirittura l’immagine fotografica dell’attore, è utilizzato per creare un break tra un argomento ed un altro, per far rilassare gli studenti o addirittura per farli divertire. Infatti le scene o le immagini umoristiche possono promuovere l’apprendimento “sviluppando pensiero creativo e costruendo la formazione di nuove associazioni e analogie”. Nell’esperienza della Southeastern University il cinema viene utilizzato con tutti gli studenti al fine di rendere più incisive le lezioni di un corso obbligatorio e mantenere alta l’attenzione. In Italia, il cinema viene soprattutto utilizzato in corsi elettivi, ossia in attività formative opzionali che comunque permettono l’acquisizione di crediti. Per esempio presso l’Università degli studi di Milano, è stato attivato un corso elettivo chiamato “medi cinema” aperto agli studenti del primo anno del corso di laurea in medicina e chirurgia, che ha previsto la visione di quattro film, una breve discussione in aula e la stesura di una relazione finale sull’esperienza formativa. Il ricorso al cinema e più in generale alle scienze umane, è dovuto al fatto  che esso permette una comprensione approfondita dell’uomo, delle sue esperienze, dei suoi vissuti, dei suoi valori, delle sue relazioni con gli altri e con se stesso.

Un medico, un uomo
(di Randa Haines, USA, 1994)

La vicenda racconta la storia di Jack McKee, un affermato cardiochirurgo di circa 40 anni sposato e con un figlio che, nel pieno della sua carriera professionale,  si ammala di tumore alla laringe.
Il film inizia con Jack in una sala operatoria che, assieme all’équipe di colleghi, sta procedendo ad un intervento chirurgico su un paziente. Il clima è allegro e scherzoso e mentre opera Jack cerca di coinvolgere tutta l’équipe nel cantare una canzone. Jack Mckee è un fautore della competenza tecnica e basta. Nei confronti del paziente, insegna agli studenti, che occorre esercitare il massimo distacco, mantenere la maggior distanza emotiva possibile, evitare ogni coinvolgimento e in particolare praticare la più totale indifferenza verso le emozioni del malato (“il chirurgo entra,  aggiusta e se ne va”). Il vero medico deve essere freddo perché “in chirurgia quello che conta è un polso fermo, non il sorriso” ( video 1). Banalizza le paure e le ansie, di solito irragionevoli, dei pazienti ridicolizzandoli.  Nel caso di Jack Mckee (a differenza di Noah Pretorius e Patch Adams) l’umorismo non è finalizzato a migliorare la compliance terapeutica, ma a mantenere il massimo distacco emotivo dal paziente, come testimoniano numerose scene del film: una paziente, a seguito di una sutura sternale, esprime le proprie preoccupazioni per gli inestetismi della sutura e si sente rispondere “dica a suo marito che sembrerà una fotomodella da paginone centrale di Playboy, ed avrà anche i segni delle graffette per dimostrarlo”; in un colloquio telefonico con una signora, preoccupata perché il marito pneumectomizzato sta falciando l’erba a dispetto delle prescrizioni mediche, Jack Mckee divaga e chiede se la falciatrice sia elettrica o meccanica, anziché rassicurare la donna; infine, Jack si rivolge ad un paziente che ha tentato il suicidio suggerendogli: “la prossima volta che decidi di punirti sul serio, gioca a golf: non esiste tortura peggiore” ( video 2).
Jack Mckee agisce il ruolo del chirurgo secondo le “norme” condivise dal paradigma dominante: è professionale, distaccato, tecnico, molto bravo, cinico, goliardico (le scene iniziali con gli altri colleghi nei riguardi delle donne e del collega otorino Blumfield, ne sono testimonianza), probabilmente “farfallone” con l’altro genere (lo si evince all’inizio in sala operatoria con la ferrista Nancy; alla prima visita con la collega otorino, la dott.ssa Abbott e anche quando incontra la moglie la prima volta) ( video 3). Fa parte della “casta” dei medici (come li definisce June, la donna malata di cancro con cui Jack stringe successivamente amicizia) e delle “prime donne” (come il medico di famiglia definisce i chirurghi). È sempre vestito in maniera impeccabile e ha un’intensa attività di beneficenza per l’ospedale: è proprio dopo una serata di beneficienza che, tornando a casa in macchina, con la moglie Anne, tossisce e nel tossire sputa sangue.
A questa identità sociale fa da specchio il significato sociale dato al chirurgo da Anne e da June. Jack è sposato con Anne, e da tempo il dialogo tra i due è ridotto a delle formule di convenienza (video 4).  Entrambi sono impegnati nelle rispettive vicende professionali. Jack dimentica l’impegno della moglie ed è assente in un momento importante per Anne. Anne, la moglie, riveste il ruolo di “moglie” del chirurgo che ha organizzato la sua vita in funzione del marito o meglio in assenza del marito che è “il chirurgo” quello che decide (Jack decide di cambiare la cucina, dice che è indolore, lo sa bene lui che è chirurgo!), quello che non fa la fila, che non aspetta il turno. La malattia che colpisce Jack li costringe ad avvicinarsi, ma una invisibile barriera sembra sempre frapporsi alla sincerità del loro dialogo.  Quando Jack comunica il tumore ad Anne non c’è mai un contatto fisico ed una condivisione sincera della paura e dell’ansia (video 5).  E anche quando, più tardi,  comunica la buona notizia non c’è emozione, non c’è contatto. Anche con i colleghi i rapporti non sono di comprensione ma di statistica, di numeri di casi e nessuno dei colleghi tiene conto di cosa vuol dire per Jack e la sua vita professionale avere una malattia e fare un trattamento di radioterapia.  
 June l’amica, è solare, aperta, generosa. Ha  dovuto costruire  il ruolo sociale della paziente terminale (è salita sul terrazzo dell’ospedale per buttarsi giù e poi non lo ha fatto); ha avuto la diagnosi di tumore cerebrale in ritardo per colpa dell’assicurazione, che non le ha consentito l’unico esame in grado di diagnosticarlo in tempo, perché troppo costoso. Per June, ma anche per il paziente, “il colon” del letto accanto a quello di Jack quando va a fare la biopsia, il medico è quello che mente, che dice le bugie (Jack racconta a June che un paziente di suo padre aveva lo stesso tumore di June ed è vissuto fino a diventare nonno) ( video 6).
Il termine ruolo deriva dal teatro, anticamente gli attori, sul palco, leggevano le proprie battute da un foglio di carta arrotolato denominato rotulus, in latino. Il termine rende bene l’idea della parte che ciascuno recita sulla scena della società, conformandosi più o meno alle aspettative ed alle regole stabilite. I ruoli si formano, si definiscono e manifestano sempre in relazione ad altri ruoli e, per quanto questa considerazione possa apparire banale, ha il merito di ricordare che l’insieme delle norme ed aspettative che costituiscono un ruolo, pur  presentandosi all’individuo come esterne ed oggettive, trovano origine nella rete di relazioni sociali in cui il ruolo è inserito, e derivano dagli individui cui il soggetto si relaziona in virtù del proprio ruolo. Emerge, in altre parole, un legame fondamentale tra “ruolo” e “azione sociale”.  
L’azione sociale è uno dei concetti fondamentali della sociologia e può essere visto come un insieme di atti, forniti di senso,  posti in essere da un attore/agente sociale  che  sceglie tra varie alternative possibili, sulla base di un progetto concepito in precedenza ma che può evolversi nel corso dell’azione stessa.  E la distinzione tra attore ed agente sta nella misura in cui  l’individuo recita il copione in maniera puntuale alle aspettative del ruolo che gli è stato attribuito (attore) o ne prende le distanze (agente) concedendosi uno spazio di libertà che, a seconda delle circostanze, può anche consentire una ricostruzione e un nuovo significato alla sua  identità/ruolo. È questa diversa libertà di agire il ruolo di medico che fa sì che i colleghi di Jack non si comportino tutti nella stessa maniera: dagli studenti al dott. Blumfield e ancora alla dott.ssa Abbott.  Questi ultimi  due sono entrambi otorini, bravi, ma si rapportano al paziente in maniera diversa: per il primo nella diagnosi, così come nel processo di malattia/guarigione, senz’altro è importante l’aspetto tecnico ma insieme con l’aspetto delle relazioni umane. Il tutto si concretizza con un atteggiamento più “umano” al punto che lui parla con i suoi pazienti in anestesia generale durante l’intervento chirurgico. Per questo è molto deriso perché si allontana dal ruolo del medico così come previsto dalla cultura medica dominante ( video 7). La seconda invece è in linea con il paradigma principale della medicina: fredda, distaccata, professionale, brava; per lei conta l’atto medico e basta.
Avviene che al dottor Jack Mckee sia diagnosticato un tumore della laringe, e, nel suo stesso efficientissimo ospedale, debba assaggiare “la sua stessa medicina” (è il titolo del libro autobiografico del dottor Rosenbaum da cui il film è tratto: A tast of my own medicine): gelido cortese distacco, indifferenza, totale non ascolto, rigetto, di ogni tentativo da parte sua di stabilire una relazione umana, usando magari l’umorismo, non eccezionale. Deve subire analisi fastidiose, supponenza ed arroganza del medici, intralci burocratici. Si lamenta delle lunghe attese (“cosa ci faccio, io, qui, ad aspettare come un comune mortale” si chiede irritato), si rifiuta di sedersi in carrozzella per recarsi in corsia (ma l’infermiere insiste: “lei ora è un paziente, e se cade in ospedale noi siamo responsabili”), nonché di condividere la stanza con un altro paziente (addirittura finisce col subire anche un clistere, in realtà destinato al suo compagno di camera), mal tollerando anche le procedure e gli effetti collaterali della radioterapia. Già dalla prima visita con la dott.ssa Abbott, Jack incomincia ad assaporare il sapore amaro del distacco, allunga la mano ma lei non gliela stringe. La giovane specialista che lo deve operare blocca autoritariamente ogni suo tentativo di dialogo, di discussione: “qui lei non è un medico ma un mio paziente, e sono io a prendere le decisioni”. Professionale, rapida, non dà la possibilità a Jack di parlare di nulla, stabilisce tutto e alla fine conclude con un “d’accordo”? che non ha nulla della ricerca dell’opinione dell’altro ( video 8).  
Jack comincia a vedere l’ospedale, insomma, con gli occhi del paziente. “Il tumore è maligno” gli annuncia, con la solita durezza, la dottoressa Abbott. Viene decisa la radioterapia, per la quale Jack viene inviato da un altro collega, il dottor Reed. Nuove attese, nuovi moduli da riempire, nuove irritazioni. Egli non sa e non vuole fare il malato (“Sono un dottore anch’io” dice a un certo punto, sentendosi però risponder “Non qui”).
Il passaggio di Jack da medico a paziente è graduale e confuso: quando fa la biopsia ed indossa i vestiti del paziente inizia il cambiamento di ruolo, anche se durante il trasporto in barella in sala operatoria lancia al volo a suoi colleghi una diagnosi. Anche la dott.ssa Abbott  all’inizio non gli riconosce il ruolo di paziente perché parla con lui da tecnico. Così anche durante il primo incontro con June e anche durante il viaggio nel deserto per andare al  concerto che Jack le regala, veste ancora i panni del medico. Quando riveste il ruolo di paziente cambia anche il modo di vestire che non è più impeccabile ma trasandato e casual.
La malattia rappresenta per Jack l’evento critico che mette in crisi l’identità personale e il ruolo sociale di Jack. In questo evento critico s’inserisce la relazione con June che è fondamentale  perché influenza anche le altre relazioni sociali di Jack (famiglia, lavoro, colleghi) ed incide anche su tutto il processo di malattia/guarigione perché è dopo l’incontro con June che riconosce che per la sua identità personale e di conseguenza poi sociale, ha bisogno delle relazioni umane ( video 9). Jack ritrova fiducia e voglia di combattere nel gruppo dei pari, gli altri ammalati che aspettano per la radioterapia: è in questo gruppo che si sente accolto e completamente compreso ed è a questo gruppo che si rivolge quando cerca sostegno.
La malattia cambia la vita, specie nel caso di patologie tumorali, mette in crisi l’identità personale di Jack e il suo ruolo sociale e familiare, ma diventa per Jack un‘opportunità di rivisitare la propria vita, il proprio ruolo fuori e dentro la famiglia. Jack parte dalla malattia per farne un momento di crescita personale,  per arrivare in senso più ampio a fare un bilancio della propria vita, rivedendone la scala dei valori ed i progetti.
La relazione con June e tutto il processo di malattia/guarigione danno a Jack  la possibilità di agire quello spazio di libertà (passaggio da “attore” a “agente” sociale) in una maniera nuova, riorganizzando la sua nuova identità personale/sociale, quindi nuovo ruolo di chirurgo, di marito, di collega.  
Jack si affida per l’intervento chirurgico al collega ebreo, il dott. Blumfield, che prendeva in giro in passato perché parlava ai pazienti durante l’intervento, si sente più tranquillo. E tranquillità ed un clima empatico glielo danno anche gli infermieri e in particolare l’infermiera che canta per lui. Riconquistato il rapporto con la moglie, Jack ritrova anche la voce, e ritorna ai propri compiti di chirurgo. Nel ricordo di June, i suoi rapporti con i pazienti acquistano tratti comprensivi e dimensioni di umanità. Non banalizza più le paure dei pazienti e dei familiari, ma le accoglie, non evita più il contatto fisico, apre le porte al mondo emotivo ( video 10).
La fiducia accordata dai pazienti al medico ha due componenti: la competenza clinica e un rapporto personale di rispetto e di empatia. Questa competenza comprende la capacità di ascoltare il paziente dandogli il tempo di parlare senza interrompere, di dare spiegazioni chiare e comprensibili, di coinvolgerlo nel processo terapeutico condividendo scelte e percorsi. Soprattutto dargli il tempo necessario per metabolizzare una notizia di salute, tenendo presente che una malattia certamente avrà influenza sulla  vita familiare, sociale e lavorativa. Cosa che non fa Jack all’inizio prima di ammalarsi e che sperimenta direttamente sulla sua pelle quando si rivolge alla efficiente dott.ssa Abbott.
Jack diventa quindi un medico consapevole della necessità di educare i tirocinanti ad un adeguato rapporto con il paziente: li informa che, oltre ai nomi delle malattie, dovranno imparare anche quelli dei malati “perché i malati hanno un nome, e il loro essere malati li rende impauriti, imbarazzati, vulnerabili” e anche perciò bisognosi d’aiuto, di ascolto, di conoscenza. E affinché tale conoscenza, non soltanto delle malattie, ma anche di cosa significhi esser malati, possa svilupparsi nei tirocinanti, Jack ordina a questi ultimi di togliersi il camice e di indossare la camicia da notte tipica dei ricoverati, perché “nelle prossime 72 ore a ciascuno di voi sarà assegnata una malattia, dormirete nei letti dell’ospedale, e mangerete il cibo dell’ospedale e subirete gli esami clinici dell’ospedale...non siete più dottori ma pazienti, buona fortuna, domani passerò a visitarvi” (video 11).
Il film si conclude con la lettura di una lettera scritta da June prima di morire: “Caro Jack, voglio narrarti una storia. C’era una volta un contadino che aveva un campo e cercava di tenerne lontani gli uccelli. Ci riuscì ma alla fine si sentì solo e allora tolse tutti gli spaventapasseri e si mise in mezzo al campo a braccia spalancate, per richiamarli. Essi, però, pensarono si trattasse di un nuovo spaventapasseri e restarono lontani. Allora egli comprese che era il caso di abbassare le braccia e gli uccelli tornarono. Ecco, anche tu devi fare così: impara ad abbassare le braccia”. E il dottor Jack imparò.
To be continued