Cinema e letteratura si incontrano sull’Alzheimer: Still Alice - Perdersi

Daniela Scala

AORN A. Caldarelli, Napoli

sdaniela2000@yahoo.com

L’arte di perdere

L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall’intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento
delle chiavi perdute, dell’ora sprecata.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
(….)

Elisabeth Bishop

Di solito, al cinema la perdita della memoria è legata ad un programma fantascientifico, oppure, più frequentemente, ha un’eziologia traumatica, un incidente; meno rappresentata sullo schermo è invece la causa che al contrario, nella realtà, è la più frequente: le forme di decadimento cognitivo, con in testa l’Alzheimer. Il film narra la storia di Alice Howland, una donna intelligente, madre, moglie, professoressa di linguistica; ha una bella vita e tanti ricordi che una forma precoce di Alzheimer le sta portando via a soli 50 anni. La vicenda è ambientata in un luogo culto del sapere, la Columbia University di New York, e colpisce una famiglia di scienziati e intellettuali: affermata linguista, Alice insegna, infatti, alla Columbia University, ha una famiglia solida con marito chimico e tre figli ormai grandi. La professione della protagonista non è casuale: le parole sono il primo veicolo dell’identità, e proprio una perdita di controllo sul linguaggio rappresenta, nelle prime scene del film, mentre la protagonista sta tenendo una relazione (Video 1), un primo sintomo della malattia di Alice. Poco dopo, durante il giro di jogging quotidiano, si smarrisce in un luogo a lei noto, si ritrova in una piazza che è sicura di conoscere ma che non sa dove si trova. Si è persa, a pochi metri da casa. (Video 2).

Da qui, a caccia del male che sta cancellando i suoi ricordi e che la porterà a non riconoscere più i suoi tre figli e il marito e, infine, allo sbriciolamento della sua identità. Nel film, le prime perdite di memoria della protagonista sono rese evidenti grazie ad un effetto stilistico brillante, il fuori fuoco che appanna il mondo intorno ad Alice, che diviene, anche visivamente, non riconoscibile. La particolarità di Alice consiste nell’essere affetta da una forma precoce di Alzheimer, tanto più indigesta in quanto su base genetica ed ereditaria. Tutto ciò in cui Alice ha sempre creduto pare sgretolarsi. E anche la sua famiglia, che l’aveva sempre considerata un pilastro indistruttibile, perde ogni certezza e fa fatica ad accettare la nuova Alice, che in certi momenti è quella di sempre, ma che in altri sembra una sconosciuta, fragile e indifesa. In poco di più di un anno, nel film, due nel libro, dalle prime dimenticanze, Alice finisce per perdersi completamente. Alice è tenace, sulle prime non si arrende: tenta di arginare il progressivo sfaldarsi della propria identità personale ricorrendo anche alla tecnologia, usando il proprio smartphone e il personal computer per lasciarsi dei messaggi che la aiutino a ricordare le parole. Le parole, vere protagoniste del film.

Il film è tratto dal bestseller Perdersi (Piemme, 2007) di Lisa Genova, laureata in neuropsichiatria ad Harvard e che da anni si dedica allo studio del cervello e delle sue malattie. È da segnalare che dei due registi e sceneggiatori, Richard Glatzer e Wash Westmoreland, compagni nell’arte e nella vita, uno è affetto da Sclerosi Laterale Amiotrofica: un film dunque a suo modo autobiografico, che sposta non in un corpo, ma in una mente femminile lo stesso dramma di ogni malattia degenerativa. Il declino progressivo, incurabile, inesorabile, talvolta rapido, come nel caso di Alice, che priva l’essere di ciò che costituisce l’essenza stessa dell’essere umano: la mente, la coscienza, la memoria, l’identità.

Il titolo del film “Still Alice”, ci informa di una cosa fondamentale: Alice, nonostante la malattia devastante che distrugge la sua brillante mente, è “ancora Alice” e insinua il dubbio che la vera essenza di una persona non si identifica con una vita professionale appagante, con una famiglia solida e unita o con una “bella testa” (o semplicemente una mente normale), ma risiede in qualcosa che è molto più difficile da identificare: i nostri ricordi, le nostre esperienze o le nostre credenze? o l’amore in senso lato?

Il titolo del libro (nel quale la Howland è professoressa a Harvard e vive a Cambridge) “Perdersi” rimanda ai versi di Elisabeth Bishop (L’arte di perdere) cui Alice fa rifermento nel film, quando tiene un discorso alla conferenza annuale dell’Alzheimer Association (un convegno nazionale per i professionisti che operano nella cura dei pazienti affetti da demenza e per le famiglie dei pazienti), che rappresenta la struggente e, a suo modo poetica, metafora centrale del film. Se perdere è un’arte, in quest’arte la professoressa Alice Howland, felice e brillante docente cinquantenne alla Columbia University di New York, dovrà progressivamente ma con rapidissimo declino immergersi, conoscerne suo malgrado tutte le pieghe, le umiliazioni, la definitiva deriva. (Video 3)

Dal punto di vista delle Medical Humanities, nel suo romanzo Lisa Genova accompagna con delicatezza il lettore nella tragedia umana di Alice senza sentimentalismi, senza cercare la lacrima. È la stessa delicatezza con cui la Moore, premio Oscar per la miglior attrice protagonista, entra nei panni di Alice, nel suo progressivo perdersi, nel dovere prendere atto della rivoluzione che sta sconvolgendo la sua vita ponendole nuovi limiti, riuscendo, nonostante la confusione e il dolore, a trovare sentimenti genuini e inaspettati dai quali trarre nuova linfa. Sia il libro che il film suscitano empatia e senz’altro sia il lettore che lo spettatore, attraverso la prospettiva del paziente, mettendosi nei panni di Alice, sperimentano la tragedia umana che si abbatte su di lei e la sua famiglia.

Ma cosa colpisce di più sia lo spettatore del film che il lettore del libro? La sintomatologia (amnesia, afasia, apatia, disorientamento e altro) sicuramente gioca di per sé un ruolo angosciante. Tuttavia, ciò che più ci tocca è la visione dello sgretolarsi dell’identità, di ciò che più ci rende umani: noi siamo anche e soprattutto la nostra storia, i nostri ricordi, e il loro frantumarsi arresta il ciclo vitale dell’organismo e, più ancora, della persona. Noi viviamo anche nelle menti delle persone, che ci circondano e siamo individuati essenzialmente dallo sguardo degli altri. La nostra stessa identità è frutto delle interazioni, della qualità dei nostri rapporti. Per Alice la percezione che la sua famiglia, i colleghi e gli amici hanno di lei, è molto importante.

(…) Nonostante la graduale erosione della memoria, il suo cervello continuava a servirla egregiamente in un’infinità di modi. In quel preciso momento, per esempio, stava mangiando il gelato senza lasciarlo colare sul cono o sulla mano, grazie ad una tecnica “lecca e ruota” che le veniva automatica fin da bambina e che probabilmente era immagazzinata da qualche parte insieme con le informazioni su come si va in bicicletta e come si allacciano le scarpe. Nel frattempo era scesa dal marciapiede e stava attraversando la strada, mentre la corteccia motoria e il cervelletto risolvevano le complesse equazioni matematiche necessarie a portare il suo corpo dall’altra parte senza cadere o finire sotto un’auto di passaggio. Riconobbe il profumo soave del narciso e una fugace zaffata di curry proveniente dal ristorante indiano all’angolo. A ogni leccata avvertiva il sapore delizioso di cioccolato e burro di arachidi, dimostrando l’intatta attivazione dei percorsi di piacere del cervello, gli stessi che gli servivano per apprezzare del buon sesso o una bottiglia di vino pregiato. Ma a un certo punto si sarebbe dimenticata come mangiare il gelato, come allacciarsi le scarpe e come camminare. A un certo punto i suoi neuroni del piacere sarebbero stati corrotti dall’assalto di accumuli di amiloide e lei non sarebbe più riuscita a godere delle cose che amava. A un certo punto non ne sarebbe più, semplicemente, valsa la pena. Desiderò di avere piuttosto un cancro. Avrebbe barattato l’Alzheimer con il cancro in un batter d’occhio. Si vergognò per averlo desiderato e di sicuro era un patto inutile, ma si concesse qualche fantasticheria. Un cancro era qualcosa contro cui potersi battere. C’erano la chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia. La sua famiglia e la comunità di Harvard l’avrebbero sostenuta nella sua lotta e l’avrebbero considerata nobile. E se anche ne fosse stata sconfitta, alla fine, avrebbe potuto guardarli consapevolmente negli occhi e salutarli tutti prima di andarsene. L’Alzheimer invece era una brutta bestia. Non c’erano armi che potessero abbatterlo. Prendere Aricept e Namenda era come puntare due pistoline ad acqua contro un furioso incendio. John continuava a informarsi sulle cure sperimentali, ma lei dubitava che ce ne fosse qualcuna pronta all’uso e capace di fare la differenza per il suo caso, altrimenti lui sarebbe già stato al telefono con il dottor Davis a insistere per fargliela prescrivere. Al momento tutti i malati di Alzheimer condividevano lo stesso esito, che avessero ottantadue anni o cinquanta, che fossero pazienti della Mount Auburn Manor o titolari della cattedra di psicologia alla Harvard University. Il fuoco consumava tutto. Nessuno ne usciva vivo. E se una testa calva e un nastrino anticancro erano considerati emblema di coraggio e speranza, il suo vocabolario difficoltoso e i ricordi annebbiati parlavano invece di instabilità mentale e demenza incombente. Chi era malato di cancro poteva contare sul sostegno della comunità(…).

Sia nel libro che nel film la malattia è presente nelle tre dimensioni, disease, illness e sickness individuate da Arthur Kleinman alla fine degli anni Ottanta. Kleinman propone un modello clinico che considera la medicina come un sistema culturale, vale a dire un insieme di significati simbolici, che modellano sia la realtà che definiamo clinica che l’esperienza che di essa il soggetto malato fa. La disease è la malattia intesa in senso biomedico come lesione organica o aggressione di agenti esterni, evento oggettivabile e misurabile mediante una serie di parametri organici di natura fisico-chimica (la diagnosi, la terapia, il test genetico, nelle persone del neurologo, del figlio studente di medicina, nel marito scienziato che cerca la cura sperimentale ecc); l’illness costituisce l’esperienza soggettiva dello star male vissuta dal soggetto malato (nel film e nel libro è predominante in quanto narrano la storia dalla prospettiva della paziente); la sickness si definisce come “la comprensione di un disordine” nel suo significato generale all’interno di una popolazione in relazione alle forze macrosociali, economiche, politiche, istituzionali (la casa di cura, l’idea che la società ha del malato di Alzheimer, il conseguente comportamento). Il caso, diciamo, classico di malattia è quello in cui una persona si sente male (ill), il medico certifica la sua malattia (disease) e la società gli attribuisce l’etichetta di malato (sick). In tal senso, a proposito del malato e delle sue (a questo punto) tre malattie, possiamo affermare che: l’illness gli permette di dare un senso al proprio malessere, il disease gli permette l’accesso alle cure mediche e la sickness da un lato, lo libera dalle incombenze lavorative e gli dà diritto, eventualmente, a un aiuto economico, ma dall’altro, spesso gli appiccica addosso un’altra “etichetta”, un foglietto illustrativo bianco, senza parole: lo stigma che nel caso dell’Alzheimer isola il malato e i suoi familiari.

(…) Alice si aspettava di essere emarginata. Persino le persone più istruite e meglio intenzionate tendevano a tenersi a timorosa distanza dai malati mentali. Non voleva diventare qualcuno che la gente temeva e allontanava (…).

Il film, e prima di esso, il libro, mostrano le sfide che sia la paziente che la famiglia devono affrontare. Ogni membro della famiglia di Alice si trova a dover fare scelte di vita che direttamente o indirettamente vanno ad influire sulla vita della protagonista e sulla propria: la figlia più grande, Anna, che incarna il modello materno di donna, che ha “voluto tutto”, carriera e famiglia; il marito, John, che riceve una proposta di lavoro, fondamentale per compiere un ulteriore salto in avanti nella sua brillante carriera, ma lontano da Cambridge, a New York (versione libro); Lydia, la figlia più giovane con la sua passione per il teatro e la recitazione (vuole diventare attrice).

Oltre a riflessioni squisitamente legate alle Medical Humanities, tanti altri sono gli spunti di riflessione e le domande che la vicenda suscita: fino a che punto per una famiglia o un suo membro è lecito che si sacrifichino per un altro membro della famiglia? sopratutto se le scelte che li allontanano da Alice sono in linea con quegli stessi valori sui quali Alice ha costruito la sua vita?

(…) “Non voglio trasferirmi a New York” disse Alice.

“Manca ancora molto tempo, non dobbiamo decidere subito” disse John.

“Io voglio decidere subito. Sto decidendo in questo momento. Voglio essere chiara in proposito finché ancora ci riesco. Non voglio trasferirmi a New York”.

“E se ci fosse Lydia?”

“E se non ci fosse? Avresti dovuto discuterne con me, prima di annunciarlo ai ragazzi”.

“L’ho fatto”

“No. Non è vero”

“Sì che te l’ho detto, diverse volte”

“Ah è così sono io che non me lo ricordo? Molto comodo.”

Respirò, inspirazione dal naso, espirazione dalla bocca, concedendosi un momento per calmarsi e tirarsi fuori da quella lite puerile in cui si stavano cacciando.

“John, sapevo che ti incontravi con delle persone dello Sloan-Kettering, ma non ho mai saputo che ti stavano proponendo un incarico per l’anno prossimo. Se lo avessi saputo te lo avrei detto prima”. “ti ho spiegato perché li incontravo.”

“Va bene. Sarebbero disponibili a lasciarti prendere il tuo sabbatico e cominciare a settembre dell’anno successivo?”

“No, vogliono una persona subito. È già stato abbastanza difficile convincerli ad aspettare fino a ora, ma avevo bisogno di tempo per finire alcune cose qui al laboratorio.”

“Non potrebbero prendere qualcuno temporaneamente, tu prendi il sabbatico con me, e poi cominci più avanti?”

“No.”

“Gliel’hai almeno chiesto?”

“Senti, in questo campo c’è una forte concorrenza e tutto si muove molto rapidamente. Siamo alla vigilia di scoperte importanti. Voglio dire, stiamo bussando alla porta di una cura contro il cancro. Le aziende farmaceutiche sono interessate. E a Harvard, con tutte le lezioni e le scartoffie amministrative, perdo solo tempo. Se non colgo questa occasione, potrei giocarmi l’unica possibilità di scoprire qualcosa che conti davvero.”

“Questa non è la tua unica possibilità. Sei in gamba non hai l’Alzheimer. Ne avrai un sacco, di possibilità.”

Lui la guardò senza dire nulla.

“L’anno prossimo è l’unica possibilità per me, John, non per te. L’anno prossimo è la mia ultima possibilità di vivere la mia vita e di sapere che senso ha per me. Non credo mi resti molto tempo per essere ancora me stessa, e quel tempo voglio trascorrerlo con te, e non riesco a credere che non lo voglia anche tu.”

“Certo che lo voglio. E saremo insieme.”

“Stronzate, e lo sai. La nostra vita è qui. Tom e Anna e i bambini, Mary, Cathy e Dan, e forse Lydia. Se accetti quel posto non farai altro che lavorare, lo sai che è così, e io sarò là da sola. Questa decisione non c’entra niente con il voler stare con me, e porterebbe via tutto quello che mi resta. Io non ci vengo.”

“Non lavorerei tutto il tempo, te lo prometto. E se Lydia andasse davvero a vivere a New York? E se tu potessi trascorrere una settimana al mese con Anna e Charlie? Ci sono tanti modi per organizzarci in modo che tu non rimanga sola.”

“E se Lydia non andasse a New York? Se andasse invece alla Brandeis?”

“Ecco perché credo che dovremmo aspettare, decidere in seguito, quando avremo più informazioni.”

“Voglio che tu prenda l’anno sabbatico.”

“Alice, per me la scelta non è tra il posto allo Sloan o l’anno sabbatico. È tra il posto allo Sloan o continuare qui a Harvard. Non posso prendermi un sabbatico l’anno prossimo.”

Lui si fece indistinto mentre Alice cominciava a tremare e gli occhi le bruciavano per le lacrime di rabbia.

“Non ce la faccio più! Ti prego non ce la faccio a resistere senza di te! Sì che puoi prenderti un anno. Se volessi, potresti farlo! Ho bisogno che tu lo faccia.”

“E se rinuncio al posto e prendo l’anno sabbatico, e tu non sai più neppure chi sono?”

“E se continuassi a saperlo, ma non lo sapessi più l’anno successivo? Come puoi solo pensare di trascorrere il poco tempo che ci resta insieme rintanato in quel tuo cazzo di laboratorio? Io non te lo farei mai.”

“Io non ti chiederei di farlo.”

“Non ne avresti bisogno.”

“Non credo di poterlo fare, Alice. Scusami, ma non credo di sopportare di starmene qui in casa un anno intero a guardare questa malattia che ti porta via tutto. Non ce la faccio a guardarti quando non sai come fare a vestirti o come far funzionare il televisore. Se sono in laboratorio non sono costretto a guardarti mentre appiccichi post-it ai pensili e sulle porte. Non ce la faccio a stare qui in casa a guardarti peggiorare. Mi uccide.”

“No, John. Sta uccidendo me, non te. Peggioro comunque, che tu sia in casa a guardarmi o nascosto nel tuo laboratorio. Mi stai perdendo. Io mi sto perdendo. Ma se non prendi il prossimo anno libero per stare qui con me, perderemo, te per primo. Io ho l’Alzheimer. E tu che cazzo di scusa hai?”(…)

John è egoista? O sta con i piedi per terra ed è molto concreto? O ancora nasconde la sua sofferenza fuggendo da lei? Tutte le risposte sono vere e il singolo spettatore/lettore sceglie in base alla propria esperienza, ai propri valori, alla propria sensibilità quella che più gli risuona interiormente. Anna è il clone di Alice: impeccabile, di successo e molto concreta quando apprende il risultato del test genetico (positivo), e comunque va avanti con la sua vita. Da allora in poi a poco a poco scompare dalla vita di sua madre.

Lidya è molto diversa dalla madre e dalla sorella, la sua vita non è una storia di successo, sta sempre a litigare con la madre perché rifiuta una formazione universitaria. Tuttavia, alla fine Lydia è l’unico familiare che con amore e pazienza si prende cura di Alice. (Video 4)

In una scena, la famiglia si riunisce attorno al tavolo da pranzo nella loro casa sulla spiaggia. Il figlio, Tom, che è alla facoltà di medicina, vuole sapere tutto su farmaci, prognosi e test diagnostici cui è stata sottoposta la madre. Anna, che è da poco incinta di una coppia di gemelli dopo una fecondazione in vitro, incarna il modello paternalistico della cura, limitando l’autonomia della madre e trattandola come una bambina. Lydia, al contrario, cerca di massimizzare l’indipendenza della madre e la sua autonomia decisionale. (Video 5)

Proteggere o promuovere l’indipendenza e l’autonomia? o trovare un equilibrio tra il proteggere la persona e il massimizzare la sua libertà?

Sia Anna che Tom scelgono di sottoporsi al test genetico: positivo per Anna e negativo per Tom. Lydia decide di non sottoporsi al test: non vuole saperlo; inoltre, al momento, non c’è nulla da fare per prevenire o curare la malattia. Poiché Anna deve sottoporsi alla fecondazione in vitro farà testare gli embrioni in modo da far nascere quelli privi del gene dell’Alzheimer: fino a che punto noi, come esseri umani, possiamo cambiare la frequenza di comparsa di geni “difettosi”? Alice non sarebbe mai nata, non avrebbe arricchito l’umanità tutta dei suoi grandi contributi accademici e non avrebbe creato questa famiglia….

Prevedendo le difficoltà cui andrà incontro quando la sua mente non sarà più presente, Alice va a visitare una casa per degenti, e dopo lascia al computer le istruzioni relative alle sue volontà. (Video 6)

Però il progetto fallisce: quando, ormai avanti nella malattia, rivede per caso quelle immagini di se stessa che le davano indicazioni su come suicidarsi in caso non avesse più ricordato nulla, tutte le pastiglie che l’avrebbero fatta scivolare in un dolce sonno, finiscono sparse sul pavimento del bagno. Da quel momento Alice è condannata all’arte di perdersi: niente costituisce più un riferimento, l’Università, in cui ha sempre lavorato, lo scorrere dei giorni, i familiari che la circondano di affetto, perdono identità e fisionomia ai suoi occhi.

C’è condanna peggiore per un uomo che diventare così demente da non poter nemmeno più soffrire al punto da scegliere, di sottrarsi ad una vita che non è più tale?....

La rabbia e i tentativi infruttuosi di lotta iniziali, lasciano il posto a una sorta di dolce e struggente oblio: oblio che non concede però nulla alla creatività del pensiero. Nella scena finale gli occhi di Alice sorridono vuoti ed ebeti: senza la memoria si perde l’identità umana.

Lydia le recita versi di teatro, nella speranza recondita che quella parola a cui Alice dedicò la vita, solleciti qualche neurone sopravvissuto alla strage; che la narrazione, nostro principale tesoro e patrimonio, colmi di senso il vuoto in cui si muovono gli occhi celesti e vacui di Alice. (Video 7)

La narrazione la avvolge in un quieto oblio, scaldato dall’amore. Quell’amore che è alla fin fine il bisogno primario dell’uomo, ed è anche la sua forza più grande. Sì, perché la malattia potrà anche portarle via tutto, ma la capacità di percepire l’amore rimane intatta, così come la capacità di manifestarlo a chi la circonda, magari in un modo diverso da prima, rimanendo sempre amore.

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